THE CURE  "4:13 dream"
   (2008 )

“For my part I know nothing with any certainty... but the sight of the stars makes me dream” (Van Gogh). Sono queste le parole che, poste tra i credits, anticipano il lavoro. E, allora, anche noi siamo pronti per schiacciare play e sognare. Finalmente! Dopo quattro anni arriva il successore di “The Cure”. “4:13 dream”, secondo disco pubblicato per l’etichetta Geffen, mette in evidenza la mania di Robert Smith per il numero 13. Come sappiamo, l’album di inediti è stato anticipato dall’uscita di quattro graziose canzoni e da “Hypnagogic states”, un EP che racchiude i singoli, attraverso dei coraggiosi remixes, realizzati da artisti d’eccezione. Tutte pubblicazioni che avevano, come data della release, il 13 di ogni mese (a partire dal 13 maggio, primo giorno disponibile per acquistare “The only one”). I Cure di “4:13 dream” sono l’affiatato quartetto che, con convinzione, suona insieme dall’estate del 2005. Accanto al capitano troviamo il fidato Simon Gallup, Porl Thompson e Jason Cooper. Come si diceva sopra, sono quattro gli anni che separano questo nuovo lavoro dal precedente di inediti. Periodo di tempo che ormai è diventato una costante tra l’uscita di un album dei Cure ed il suo successore. È, infatti, dal 1992 (“Wish”) che Robert Smith e soci attendono così tanto tempo prima di deliziare i palati dei fans con nuove canzoni inedite. Ed è quanto accaduto anche in questa occasione, nonostante la maggior parte delle canzoni fosse già abbozzata alla fine dell’estate di tre anni fa. Responsabile della copertina è, ancora una volta, la Parched Art di Porl Thompson. L’immagine stilizzata di due uomini spicca su uno sfondo bianco, mentre intorno ai visi sono presenti sagome e figure che simboleggiano parole e note musicali: ovvero l’arte dei Cure. Chi conosce il gruppo di Robert Smith è al corrente di come il brano d’apertura sia uno dei migliori del disco (quando non il migliore in termini assoluti). A questa regola non si sottrae “4:13 dream” che con “Underneath the stars” regala un vero e proprio portento. I circa sei minuti di “Underneath the stars” si riveleranno i migliori di un disco che, senza difficoltà, possiamo definire eccellente. La voce di Robert Smith, che diventa quasi un sussurro, e la poesia che sta dietro le parole del leader, fanno di questo brano il degno successore di “Plainsong”. È talmente bella e coinvolgente, “Underneath the stars” che, senza indugi, gridiamo alla nascita di un altro classico. L’album, dalla seconda canzone, cambia immediatamente faccia, deviando per il pop. “The only one”, il primo singolo estratto per questo nuovo lavoro, è una tipica canzone Cure virata al versante più easy. Certo non è facile succedere a quel colosso del primo brano, ma “The only one” se la cava benone, per un pezzo in cui si evidenzia tutta l’arte melodica del leader. Analogo discorso vale per “The reasons why” (forse leggermente più epica sul finale) in cui le cose migliori sono date dalla voce di Robert Smith e dal basso di Simon Gallup; un brano che risulta molto poco Cure in quei coretti posti durante il ritornello (attenzione, però, non stiamo parlando delle scontatissime backing vocals che Mike Mills propone in tutte le canzoni dei R.E.M.). “Freakshow” è uno dei pezzi più indovinati dell’album; è qualcosa più di una pop song (Cure style) che, ormai, Robert Smith potrebbe scrivere ad occhi chiusi. Di fatto “Freakshow” è quella canzone leggera, ma assolutamente folle in cui si possono vedere gli antenati nelle celebri “Why can’t I be you”, oppure nell’ancor più datata “Let’s go to bed”. Il ritmo incalzante e sincopato del brano, unitamente alla voce di Smith, ne garantiscono la sua durata nel tempo. “Sirensong” è un altro eccellente brano in cui, questa volta, Robert & co. attingono direttamente da loro stessi. Nell’incedere, infatti, la melodia ricorda la “Jupiter crash” di “Wild mood swings” anche se proposta con strumenti diversi. Dall’anteprima che i Cure fecero a piazza San Giovanni in Roma, infatti, abbiamo potuto apprezzare Porl Thompson con la chitarra hawaiana; il connubio tra il suono quasi svolazzante creato dallo strumento di Thompson e quello più classico della chitarra di Smith crea un momento importante all’interno degli equilibri sonori di “4:13dream”. “The real snow white” si apre con la frase ripetuta più volte “You’ve got I want”, in cui Robert Smith ritorna a raccontare la frustrazione per la mancanza delle cose desiderate (per liriche, quasi un secondo episodio di “Want” – 1996) e, in un clima in bilico tra il serio e lo scanzonato, prosegue con “The hungry ghost”, capitolo leggermente meno d’impatto rispetto agli altri proposti in questo 2008. “Switch” inizia con l’assolo di chitarra di Porl Thompson in stile sixties (quasi un omaggio a Jimi Hendrix). È un pezzo energico in cui Robert Smith snocciola le parole con velocità incredibile, quasi gareggiando con le chitarre in una rincorsa al traguardo finale. “The perfect boy” è l’ultimo dei quattro singoli estratti per “4:13 dream”. È un brano pop in perfetto stile Cure, in cui, all’interno di un’ottima linea melodica, si nasconde un retrogusto malinconico, tipico di vecchi successi passati (leggi “High” – 1992), mentre “This. Here and now. With you” propone una canzone solare, perfettamente in linea con le migliori dell’album. Da questo momento, “4:13 dream” è pronto a chiudere con il botto, attraverso le ultime tre tracce che ci confermano l’enorme qualità dell’intero lavoro. “Sleep when I’m dead” è stato il migliore tra i singoli estratti. È il brano che, più degli altri colleghi a “quarantacinque giri”, esce dal canone della pop song, per entrare in un clima sonoro più oscuro e teso. La chitarra con l’effetto wha-wha di Thompson è il costante dolce rumore di sottofondo che fa da corollario all’imponente trama sonora dettata dalla sessione ritmica, mentre il grande guru canta divinamente tra il sofferto e l’infuriato. Con le parole solo sussurrate dal leader si inizia l’ascolto di “The scream”, brano ipnotico, capace di catturare fin dal primo ascolto. Nell’intreccio chitarristico creato da Smith e Thompson, ci sembra di rivivere le atmosfere lisergiche ed ipnotiche di “The top” (1984); un viaggio allucinante in cui la collera di Robert Smith cresce verso il finale, per liberarsi in urla strazianti. È la giusta preparazione per il finale. La conclusione è per “It’s over” (inizialmente titolata “Baby rag dog book”), uno dei vertici assoluti di tutto il lavoro. Quando venne proposta in anteprima durante il 4tour 2008 capimmo immediatamente di trovarci di fronte ad una canzone (per caratteristiche melodiche la più somigliante a “Sleep when I’m dead”) con quel piacevole qualcosa in più. La sessione ritmica si supera creando un sound in grado di far crescere progressivamente ritmo e tensione; quando poi arrivano le chitarre di Smith e Thompson e l’immancabile cantato siamo ancor più certi che “It’s over” sia la migliore conclusione di un album veramente ispirato. L’estenuante attesa per la lunga gestazione di “4:13 dream” è stata ripagata da un altro album appassionante. Possiamo già affermare che, con il successore di “The Cure”, Robert Smith e soci abbiano fatto “tredici”, creando, se non un capolavoro, quanto meno un album credibile e godibile in ogni sua parte. Per ciò che concerne l’inevitabile domanda se questo “4:13 dream” sia migliore rispetto alle precedenti prove del complesso, possiamo solamente deviare il quesito, suggerendo piuttosto di rimettere la puntina sulla prima traccia, e poi ancora, e poi ancora, e poi ancora. Again and again and again. Questa è, probabilmente, l’unica risposta che darebbe Robert Smith e l’unica che ci sentiamo di suggerire. (Gianmario Mattacheo)