TEMO BABILA "Cava"
(2024 )
Esiste un canyon in Italia, che si trova tra Basilicata e Puglia: la terra delle gravine. Questo è l'ambiente ruvido dove si sviluppano la storia, la musica e il cortometraggio di “Cava”, esordio di Temo Babila. L'album, uscito per Dischi Uappissimi, è formato da cinque brani, di cui tre della lunghezza attorno agli otto minuti. Musicalmente ci muoviamo tra il rock progressivo e l'elettronica sperimentale, ma la cosa che spicca di più qui è senz'altro l'interpretazione vocale.
Più che un concept musicale, sembra uno spettacolo teatrale. Sento due attori, che assieme al resto della band, suonano la loro colonna sonora a tinte forti. Il chitarrista Antonio Intini, aka Temo Babila, spesso recita, e spinge con enfasi le note cantate fino a spezzare la voce. Nel secondo brano “Palelle” va in scena un'angosciosa ricerca di una persona perduta, e sembra che il protagonista stia parlando o al telefono, o comunque con un interlocutore che non gli risponde. E poi urla “PALELLE” con crescente intensità, nella ricerca a vuoto. Accanto a lui, la tastierista Silvia Fiume caccia urla di puro terrore, del tutto credibili, come nei migliori film dell'orrore.
Le musiche, in tonalità minore, ci trasportano nel racconto, fra crescendo roboanti e fondali sintetici ambientali. Batteria e percussioni contribuiscono a geolocalizzare la musica, fortemente legata alle rocce delle gravine, come si vede nell'immagine di copertina, dove per pareidolia sembra di vedere un volto. I ritmi sembrano rituali, esprimono la volontà di descrivere qualcosa di sacro. È difficile afferrare il senso della narrazione, ma è facile coglierne sensazioni e sentimenti. Dolore, rabbia, fino alla vera disperazione nel finale di “Beccuccio”. C'è il desiderio di elevazione mistica, esplicitato nel testo, e una cava di calcarenite è il posto magico dove si racconta che ciò accada.
Ma la declamazione è così struggente, che quel che emerge è la bruciante distanza tra questo anelito spirituale e la spietata prosaicità della terra. Per dirla con Battiato, in questa condizione la vita non “fugge in diagonale”: resta imprigionata nell'orizzontale, mentre il verticale sembra sempre più lontano, con l'amarezza che ne consegue: “I collari di fine settembre (…) resteranno al tuo collo per sempre”. Il corpo materiale è visto con disagio: “La danza delle ciglia morte in un abbraccio, fra le croste delle lacrime. Forse il mio respiro è ancora tuo per salvarti, ma il mio amore era cibo per i cinghiali”; “Se il tuo cuore ha mai amato, ferma il vento e uccidi il verme. Tagliati e uccidi il verme, usa la lama e taglia il verme”; “La pioggia di vermi non si fermerà mai, non voglio morire qui”.
Che altro aggiungere? Questo è un esordio che lascia sorpresi e storditi, è una realtà che porta una forza espressiva e sincera come non se ne sentivano da un po', in questi tempi musicalmente così freddi e calcolati, anche nel sottobosco. Speriamo di aiutare Antonio Intini, aka Temo Babila, a farsi notare con queste parole, perché, cribbio, sarebbe la nostra missione di divulgatori! Volendo anche magari smussare qualche spigolosità eccessiva, o qualche vocale troppo allungata (a volte dispiace non capire tutte le parole, essendo il contenuto molto serio e profondo), progetti come questi vanno spinti per davvero. (Gilberto Ongaro)