CRY BABY  "Under cover of night"
   (2024 )

Sono confuso.

Frastornato e sedotto. Spiazzato ed ebbro. Incredulo e gaudente.

Per un disco, solo per un disco, abbacinante epifania inattesa.

Cry Baby, con il determinante apporto di Ferdinando Faraò alla batteria, è un progetto che nasce dalla mente di Sabina Meyer ed Alberto Popolla, lei talentuosa artista di origini italo-svizzere, lui musicista di lungo corso, coppia che vanta curriculum, titoli e trascorsi tali da meritare corposa e dettagliata trattazione a sé.

Sorvolerò, unicamente per non sottrarre spazio alla maestosa – benché raccolta, nascosta, preziosa, affatto immediata - magnificenza di “Under Cover Of Night”, album pubblicato per Filibusta Records, cinquantatré minuti di spinosa beatitudine declinata in dieci tracce inafferrabili, ondivaghe, cangianti.

A dominare la scena è il connubio – suadente, ubriacante - tra le frequenze liquide e profonde trasmesse da una musica notturna, sensuale, sottilmente cupa da un lato e da un flautato canto di sirena, dall’altro: sia Sabina che Alberto imbracciano il basso, dando vita ad un inusuale interplay che forgia melodie, le plasma, le lascia ad aleggiare spettrali (“Stay”), le inghiotte seguendo l’estro del momento. Scopertamente elitario nell’impostazione, colto ma non inaccessibile o impenetrabile, si concede incursioni in territori più prossimi al comune sentire (“Run”), riservandosi sacche avant-jazz nei sette minuti di “Catholic Architecture”, inebriante performance vocale su un tappeto di basso ed effetti, mischiando le carte nella pennellata à la For Carnation di “Rock”, attendista ed incombente fino alla virata di una coda che ricorda le Warpaint, incuneandosi sornione nell’abbrivio quasi western di “Winter” o nel controtempo ossessivo e dissonante di “Evening”.

Altrove, è tutto un infido caracollare, sibillino ed ambivalente, una sequenza ininterrotta di movenze sinuose in un dedalo di sofisticate vibrazioni ed atmosfere conturbanti, le stesse che scuotono e pervadono la cadenza al rallentatore di “Come” - clarinetto e vocalizzi come lampi nella notte, flash di Koop e Dali’s Car - o che disegnano forme riconoscibili, lambendo strutture più vicine al rock-as-we-know it nei due episodi conclusivi, particolarmente nell’elettricità disturbata che screzia l’outro di “Black Is The Colour”.

Echi sparsi e suggestive rimembranze di Wyatt, Portishead, Joanna Newsom, These New Puritans e perfino Siouxsie risuonano in questi brani complessi e stratificati, sinistri a tratti, talvolta morbidi ed evocativi. Il mood generale rimane costantemente sospeso tra sottile inquietudine, accogliente malìa e ricercatezza non affettata, infuso in tessiture garbate e trame eteree che lievitano lungo percorsi non lineari, definendo un’espressività raffinata ed imprevedibile, refrattaria a qualsiasi classificazione di comodo.

Musica totalmente libera da vincoli e costrizioni, impegnativa ma esaltante, arte sfaccettata che richiede disponibilità e dona in cambio nuove, emozionanti possibilità. (Manuel Maverna)