GERA BERTOLONE  "Femmina"
   (2024 )

Fosse anche soltanto per la rilevanza – emozionale, sociale, culturale - del fil rouge che lega queste undici perle in forma di canzone, “Femmina” sarebbe già un gran disco, ma gli atout di cui dispone sono molteplici. Opera penetrante che affronta, sviscera, analizza ed abbraccia la condizione femminile da svariati punti di osservazione, il secondo lavoro solista per Sonora Recordings di Gera Bertolone - compositrice, musicista ed interprete, siciliana di origine, parigina di adozione - si muove tra sentimento e passione, sconfitte e rivincite, risentimento e redenzione.

Supportata da un quartetto d’archi e da un trio batteria/violoncello amplificato/chitarra elettrica che straordinariamente arricchisce questa palpitante cavalcata in dialetto siciliano, Gera ridisegna la mappa della musica etnica miscelando un canone antico e sonorità inattese, coniando una sorta di indie-folk sui generis, spinoso ma allettante, avvolgente ma ispido. Ricco fino all’opulenza di spunti testuali e musicali, viscerale ed acceso, cupo a tratti, altrove addolcito e mansueto, movimentato ed incalzante, finemente elaborato, prodotto con cura e sontuosamente arrangiato, “Femmina” comunica una mestizia densa come lava, intima e vibrante, che almeno in parte risente stilisticamente della collaborazione con artisti francesi (tra gli altri, co-produzione artistica di Jean-Philippe Perrot, produzione e mixaggio di Sami Bouvet), come fosse imbevuto – in modo del tutto naturale - di influssi d’oltralpe e di quella sfuggente tristesse che colà impera.

Largamente declinato in tonalità minori, l’album apre con l’inno liberatorio di “Abballati”, opener indemoniata e dichiarazione d’intenti; prosegue con il tema dolente di “Amuri ca di notti”, struggente connubio di archi ed elettricità, immersa in una deriva quasi neoclassica; completa con la toccante lullaby di “Figghia mia”, sublimata in una coda corale di rara intensità, il mirabile trittico iniziale.

Tenero ed energico, sinceramente impetuoso oppure morbido e riflessivo, l’animo cangiante di questa singolare artista si crogiola nella melanconia lontana di “Canzuna” e nella raccolta gentilezza di “Binidissi lu jornu”, gioia della maternità stemperata da una progressione di accordi accorati, mentre preziosa risuona la riproposizione di “Sta terra nun fa pi mia”: canzone di emigrazione scritta ed incisa un secolo fa dalla palermitana Rosina Gioiosa Trubia, è brano perso nel tempo, ma riscoperto pochi anni fa da Giuliana Fugazzotto e già reinterpretato in trio da Michele Dal Lago, Giusi Pesenti e Jake Sanders, qui offerta in una versione ritmata dagli accenti ben calcati.

Spaziando con brillantezza e nonchalance da episodi solo in apparenza più leggeri a picchi di fremente drammaticità, scorrono in ordine sparso il passo insistito di “Vinni a cantari”, abbrivio tzigano mutato in singolare hard-blues teso ed affranto, gli echi afro di “U Muccaturi”, il divertissement de “La tarantula”, il valzer lieve di “Ti vurria vasari”, contrappuntato dal clarinetto di Gera, il vorticoso crescendo di “La notti libertà”, con percussioni e chitarra a definire una melodia afflitta, vertice assoluto dell’album e manifesto di resurrezione spirituale latu sensu.

In un vortice di vivide emozioni che proliferano sulle ali di un immaginario popolare mai così nitido, restano trentanove minuti che vanno dritti al cuore, musica che accarezza e ferisce, coccola e schiaffeggia, affondando impietosa i suoi colpi più duri o cullando i propri figli con tutto l’affetto che può regalare. (Manuel Maverna)