THE CURE  "Songs of a lost world"
   (2024 )

Scrivere questa recensione ha, per me, un sapore davvero particolare, innanzitutto per la sua genesi, in quanto rigira nella mia testa da almeno sedici anni, ma anche per la sua difficile gestazione, che aveva fatto diventare l’ultimo in studio dei Cure uno dei tanti album fantasma della storia del rock.

La vicenda è conosciuta da tutti. Un album annunciato così tante volte da diventare quasi una barzelletta, in cui lo stesso Robert Smith finiva per essere attore, vittima e unico sceneggiatore di un romanzo dissolto (Tolkien avrebbe preso spunto per riscrivere “Racconti perduti”).

Una recensione che avevo già immaginato in testa troppe volte, da quel “4.13 dream”, targato 2008 e ultima fatica sulla lunga distanza dei Cure.

In queste molte recensioni mai scritte, mi immaginavo raccontare un album eccellente, un ritorno in grande stile per la storica band inglese.

Ma era il mio status di fan che parlava: l’amore ti fa essere passionale, ma assai poco obiettivo. Se rileggo i miei report degli ultimi due album della ditta, mi accorgo di quanto questo sentimento abbia influenzato molto il mio senso critico. Non c’è dubbio che le ultime due prove in studio siano le più deboli di tutta una carriera e “Bloodflowers”, album del 2000, finiva in realtà per essere l’ultimo grande capolavoro dei Cure. Insomma, mi abituavo a scrivere di cose straordinarie, quando, più verosimilmente, mi sarei trovato di fronte a canzoni ordinarie.

Poi, però. Poi, però, stava cambiando qualcosa…

Tour dopo tour i Cure hanno iniziato a concedere pezzi nuovi in anteprima di un album ancora lontano dalla pubblicazione, ma dal sapore già speciale. Lo scossone, in tal senso, arrivò con i concerti del 2022, quando ben cinque pezzi inediti vennero presentati live.

Da subito capimmo quanto ci trovassimo di fronte a qualcosa di diverso, di nuovo, ma, allo stesso tempo, di antico.

Negli ultimi anni Robert Smith ha perso praticamente buona parte della sua famiglia, e la sua enorme sensibilità non poteva non tradursi in canzoni, questa volta davvero speciali.

Una gestazione che non solo ha dovuto fare i conti con le sempre più marcate pignolerie di Robert Smith, ma che incontrò nel suo percorso rallentamenti non facilmente superabili. Da quel “4.13 dream” la band iniziò a cambiare volto, rinunciando dapprima a Porl Thompson (pronto a trasformarsi in Pearl e concentrarsi in altre forme artistiche); per poi riabbracciare Roger O’Donnell e Perry Bamonte (abbraccio, questo, in realtà non voluto dal resto dei Cure); subire le lunatiche prese di posizione di Simon Gallup (“lascio, forse lascio… ok rimango”); vedere Reeves Gabrels diventare chitarrista del complesso e aspettare, infine, la piena guarigione di O’Donnell. Sembrerebbe la trama di una sit com, mentre rappresenta la realtà a cui Smith dovette fare i conti, accantonando album forse quasi pronti, ma espressione di un gruppo ormai stravolto nei suoi componenti (non eravamo già preparati a scartare dal cellophane quel “4.14 scream”? album che, infatti, non avrebbe mai visto la luce, nonostante fosse stato praticamente annunciato).

Con una campagna pubblicitaria senza precedenti, il gruppo rompe gli indugi e annuncia la data tanto attesa: 01 novembre. Facile per un fan leggere la data in chiave umoristica, avendo già eletto a Santità il responsabile di tante gioie e dolori.

Insomma, anche se il parto è stato lungo, difficile e travagliato, possiamo dire che ci siamo, mentre abbiamo tra le mani il quattordicesimo in studio degli inglesi.

La copertina riproduce “Bagatelle”, una scultura di Janes Pirnat, per un progetto grafico in cui lo stesso Smith ha svolto un ruolo di primo piano, coadiuvato da Andy Vella, curatore della grafica dell’album e cofondatore (con Porl Thompson) della Parched Art, ovvero i responsabili di quasi tutte le immagini impresse nei dischi della band.

“Alone” ha l’onere di fungere d’ariete (proprio come fu apripista nei concerti), capace di riportare lo spazio-tempo direttamente al 1989, quando “Disisntegration” venne dato alle stampe. È Robert Smith che spiega l’importanza del pezzo, quando afferma quanto il brano sia, in sostanza, una riflessione sul concetto di solitudine e quanto la sua registrazione rese possibile la realizzazione dell’intero progetto: “Ho capito che doveva essere la canzone d’apertura e ho sentito che l’intero disco veniva messo a fuoco”. Il pezzo si regge su una lunga introduzione in cui archi, chitarre e tastiere (tante) anticipano in maniera solenne l’ingresso della voce e di quelle liriche che rimarranno inchiodate nella memoria (parole ispirate dalla poesia “Dregs” di Ernest Dowson).

“And nothing is forever” è quel brano che vince su tutti, quanto a capacità di mettere a dura prova le ghiandole lacrimali del sottoscritto. Come in “Alone” anche nella seconda traccia i Cure non hanno fretta di partire, lasciando ai synth e a una orchestrazione carica di effetti il compito di creare l’atmosfera. Ci vogliono più di 3 minuti (praticamente la lunghezza dei tre/quarti dei brani pubblicati da ogni altra band che non si chiami Cure) per sentire la Voce del Padrone e, quando arriva, raccomandiamo di tenere sotto mano i fazzoletti, quando si promette di stare insieme alla persona nell’ultimo momento di vita.

“A fragile thing” è quel brano dal sound apparentemente più leggero rispetto agli altri, quello che per melodia e liriche ripercorre uno schema arcinoto a Robert Smith. Una canzone, comunque, importante negli equilibri generali di SOALW ed un pezzo che è lo stesso leader ad inquadrare come la 'canzone d'amore' dell'album: “Ma non è proprio una canzone d'amore nel modo in cui lo è Lovesong... parla di come l'amore sia la più duratura delle emozioni, la più potente delle emozioni, incredibilmente resistente… e allo stesso tempo incredibilmente fragile”.

“Warsong” che parte con un inconsueto harmonium (stile Nico o per rimanere nelle opere di Smith, sullo stile di “Untitled” del 1989) e “Drone nodrone” (la meno ispirata del lotto) sono le vere novità di SOALW, canzoni mai presentate in anteprima, neppure nei live dell’ultimo tour. Entrambe mostrano il lato più incazzoso del progetto, quello meno devastato sentimentalmente, ma carico comunque di rabbia, resa al meglio dalle doppie chitarre distorte e onnipresenti di Smith e Gabrels.

In “I can never say Goodbye” sono ancora i tasti di O’Donnell a introdurre uno dei pezzi più carichi di pathos. Robert scrive un’ode al fratello per esorcizzare un dolore altrimenti non codificabile, se non attraverso un brano, nato per far piangere.

“All I ever am” è l’altra vera novità che, giocata su una introduzione relativamente breve, è caratterizzata soprattutto dalla batteria muscolosa di Cooper e dalle tastiere di O’Donnell, per raccontare l’accettazione che Robert Smith ha di sé stesso.

E poi arriva “Endsong”, ed è facile dire che proprio non si poteva finire diversamente. La più lunga introduzione dell’album (siamo sui 6 minuti) appare come una suite in cui synth, batteria carichissima e chitarre distorte anticipano il pezzo forse più triste dell’intero progetto. È la coda di un insieme che trova il suo gemello in quella “Alone” che apriva il disco, ma con sfumature ancora più rassegnate e dolorose, tradotte in un sound capace di diventare sempre più violento nel volgere del pezzo.

Che questo rappresenti un album di intensità superiore, lo abbiamo già detto; ciò che dobbiamo ancora di più evidenziare, però, è quanto questo lavoro sia anche il più personale nella carriera artistica di Robert Smith.

In passato il cantante e chitarrista ha saputo commuoversi e commuoverci attraverso testi profondi e suggestioni che, solo in parte, accarezzavano la sua vita reale, facendosi volutamente influenzare dal mondo esterno.

Con SOALW, Robert si toglie il velo e scrive in prima persona come mai lo aveva fatto in passato. Dalla citata traccia d’apertura, passando per le sofferte parole in ricordo del fratello e arrivando alle terre desolate di “Endsong” ci troviamo (da ascoltatori) dentro i più intimi pensieri di questo autore e nell’ascoltare queste confessioni ci sembra quasi di chiedere scusa, quasi stessimo violando una sfera troppo privata.

Possiamo ribadirlo: se fosse stato un album paragonabile agli ultimi due in studio, avreste letto ugualmente frasi entusiastiche, ma un tantino forzate (o faziosamente di parte, scegliete voi, e avreste indovinato comunque), mentre il parlare di quest’opera è stata la prova più semplice a cui sono stato chiamato.

Non è solo il nuovo album dei Cure. È l’album che ci ha dimostrato una volta di più la grandezza di Robert Smith. Per la maggior parte degli artisti, superati i 60 anni, l’impresa più grande è quella di mantenersi a livelli accettabili, scongiurando ripetitività da cliché e senza perdere troppo dell’antica magia compositiva e lirica. Robert Smith ha fatto qualcosa di più grande; è riuscito ad alzare l’asticella, vivendo una seconda giovinezza artistica, mentre a noi spetta il campito più facile, seguirlo e schiacciare il tasto play, anche se “… E’ tutto finito; non c’è più nessuna speranza, nessun sogno, nessun mondo”. Perché, è vero, Robert hai ragione, è proprio un mondo perduto, ma queste canzoni ci fanno sentire meno soli. (GIANMARIO MATTACHEO)