PINO RUFFO  "'O cunt ro mare"
   (2024 )

Originario di Pozzuoli e cresciuto in una famiglia di pescatori, Giuseppe Ruffo si appassiona alla musica fin da giovane, imparando a suonare le percussioni inizialmente con l’aiuto di alcuni oggetti di uso quotidiano, come i barattoli del caffè.

Pian piano si afferma come cantante da strada accompagnando il proprio canto con diversi strumenti da percussione provenienti da varie zone del mondo (darbuka, jaon, handpan, tamburi a cornice ecc., ma anche l’immancabile tammorra napoletana).

Insieme alla casa discografica Marocco Music e ad altri artisti (come Giacomo Pedicini e Francesco Paolo Manna), Ruffo registra finora due importanti dischi: “’O vvivo” (2018) – di cui fanno parte i brani “Scirocco” (riguardante la storia dei migranti) ed “Ero” (riguardante la storia personale del cantante) – e il presente album, intitolato “’O cunt ro mare” (maggio 2024), un vero e proprio omaggio reso al mare e ai suoi pescatori, alla musica e alle emozioni umane.

L’uso dell’idioma napoletano in tutti i brani presenti sul disco imprime alle canzoni una nota di autenticità ed esprime l’amore per i luoghi natali, al contempo stimolando – negli ascoltatori che conoscono l’italiano, ma non il napoletano – la curiosità di capire il significato delle parole attraverso le somiglianze fonetiche con le loro corrispettive italiane. Tuttavia, la comprensione incompleta del testo da parte di chi non conosce il napoletano purtroppo fa sì che una parte del significato poetico dei brani venga trascurato.

Dal punto di vista musicale, si notano innanzi tutto i suoni profondi e riecheggianti prodotti dalle percussioni, che evocano il mare ed esercitano un potere quasi catartico sull’ascoltatore. Il suono registrato del mare stesso viene ad aggiungersi all’insieme delle percussioni nel primo e nell’ultimo brano dell’album.

Il primo, intitolato “’A tofa”, imita suggestivamente gli echi prodotti dalla conchiglia chiamata appunto “tofa”, che inizialmente significava “nicchio” o “conca marina”, mentre col tempo è diventata uno strumento musicale a fiato tipico dell’Italia meridionale. L’ultimo brano invece, intitolato “Sia”, porta all’attenzione del pubblico il problema purtroppo molto attuale del femminicidio… Tra i suoni degli strumenti che imitano le onde del mare e il vento, si sentono con chiarezza i versi che probabilmente in italiano sarebbero: “Sia, per te la spina fissa dentro il cuore/ Sia, Sia, non passa più questo dolore./ Sia, Sia, vederti correre felice/ Questo sorriso/ Ti ha portata in Paradiso”.

L’effetto benefico del suono delle percussioni sull’anima, la sua capacità di alleviare i dolori e cacciare via la cattiva sorte, sono messe in rilievo nella canzone “Scava tamburo”, una specie di valzer medievale con tanto di clarinetto e di archi, che fa venire in mente l’immagine di una ballerina che danza con un tamburello in mano. Ad un certo punto Pino Ruffo invoca la Musica dicendo: “Portami, Musica, a casa mia,/ Non mi far perdere la strada per la via”, ricordando forse un momento importante del proprio passato, in cui da giovane la musica lo ha salvato dall’inferno della tossicodipendenza.

La dura vita dei pescatori viene raccontata in canzoni come “’A cor’ e Zefiro” e “Caramma”… Quest’ultima ci regala un originale e armonioso abbinamento fra un tradizionale ritmo di tarantella e delle audaci sonorità rock eseguite con la chitarra elettrica, esprimendo la delusione provata dal pescatore in seguito alla rottura della rete che non si può più “sarcire” (= riparare). Probabilmente il testo di “Caramma” è anche una metafora del fallimento nella vita in generale, che a volte si può “rompere” in maniera irreparabile.

Un brano particolare, un valzer di grande sensibilità che esprime la consapevolezza della fragilità umana, è “’O scuro”. Qui i suoni del clarinetto e degli archi – che ricordano la musica classica – si danno la mano con quelli della chitarra classica e delle percussioni eseguite battendo le mani, che ci fanno immergere (soprattutto durante il ritornello) nell’atmosfera delle danze gipsy e del flamenco.

Due canzoni più “commerciali” grazie al loro ritmo vivace e danzante, ma non meno profonde delle altre presenti sul disco, sono “’O cunt ro mare” – che dà il titolo all’album e nella quale, tramite la personificazione degli animali marini vengono narrate la sofferenza del mondo dei migranti e la loro speranza in una vita migliore – e “Acqua secca”, una vera e propria canzone-simbolo della città di Pozzuoli, in cui si raccontano le amare vicende subite dai pescatori e dalle loro famiglie durante gli eventi bradisismici del 1970 e del 1982. Nel ritmo e nelle sonorità degli strumenti presenti in entrambi i brani si sentono delle interessanti contaminazioni di musica araba, che ha molto influenzato l’intera arte di Pino Ruffo e dei suoi collaboratori.

Un disco, questo, da ascoltare in tranquillità e con la dovuta e meritata attenzione, senza farsi fermare dall’incompleta comprensione linguistica: la diversità, lungi dall’essere un muro di separazione, è un ponte che apre la strada verso nuovi orizzonti immensi come le distese di acqua che coprono la Terra. (Magda Vasilescu)