TARAH WHO?  "The last chase"
   (2024 )

Francese di origine, stabilmente losangelina di adozione, Tarah G. Carpenter è anima e cuore del progetto Tarah Who?, nato come duo al femminile, oggi quartetto con la sola Tarah come superstite delle varie line-up sperimentate negli anni.

Sigla capace di mettere d’accordo nutrita fanbase e critici illuminati, Tarah Who? calca con furia combattiva i palchi di mezzo mondo, trovando nel live la dimensione più congeniale all’espressività diretta e frontale che ne caratterizza l’approccio, qualcosa tra Pretenders, Against Me! e Nirvana di “Bleach”.

Ruvido ed incalzante, quello offerto a piene mani in “The Last Chase”, su etichetta Pavement Music, è rock puro e fragoroso che ben volentieri rinuncia alla melodia nel nome di un’urgenza ineludibile: sporco e viscerale, lavora sull’impatto complessivo più che sull’appeal dei brani, sparati dritti al punto, senza fronzoli. Sono pezzi esplosivi, concisi, strutturalmente essenziali, talvolta basati su progressioni di accordi poco concilianti: dall’assalto a testa bassa di “Safe Zone” al fuzz rabbioso di “Dimples”, dalla chiassosa accelerazione di “Do You Believe In Santa Claus” al riff killer di “Grown Up”, l’album deflagra con foga in un vortice di ritmo e asprezza, seppellendo ogni timido accenno d’armonia (“Unborn”, “Army of Women”, il massimo della concessione alla leggerezza) sotto una coltre di elettricità disturbata e nervosa.

Dalla ripetizione ossessiva che occupa metà di “Never Say Never” alle suggestioni à la Marilyn Manson di “In Her Honor”, a dominare la scena è il canto secco e teso di Tarah, che trafigge questa sequenza ininterrotta di verse-chorus-verse indisciplinati e brucianti fino al brusco epilogo di “You Don’t See Me”, tra refrain sgolati e drumming possente.

E’ l’ultima sberla, l’epilogo di un disco frenetico e compatto, una scossa che lascia pochissimo al sollazzo, chiedendo in cambio il totale coinvolgimento fisico di muscoli, nervi e sudore, fin quando fa male, fin quando ce n’è. (Manuel Maverna)