MARI KVIEN BRUNVOLL, STEIN URHEIM & MOSKUS "Barefoot in bryophyte"
(2024 )
Questo disco è irreale.
A stento descrivibile, arduo da circoscrivere, catalogare, incasellare, crea un suggestivo milieu ibrido, un prodigioso fluire ipnotico, tanto indefinibile quanto meravigliosamente suadente nella criptica amalgama di opposti su cui poggia.
Non si pone limiti, non ha confini: rilassato e soffice, si balocca coi mood cangianti portati in dote dalle menti creative – cinque musicisti norvegesi di lungo corso - che animano il progetto. Innanzitutto, la coppia formata da Mari Kvien Brunvoll e Stein Urheim, sodalizio con alle spalle tre album, prestigiosi riconoscimenti e rilevanti affermazioni nel world apart della musica contemporanea; accanto a loro, a fungere da spina dorsale del lavoro, il trio Moskus (Anja Lauvdal, Fredrik Luhr Dietrichson, Hans Hulbækmo), band di spicco nel fitto sottobosco jazz scandinavo.
Dal proficuo connubio traggono linfa le nove tracce atmosferiche, sospese, insinuanti di “Barefoot in Bryophyte”, pubblicato per la storica Hubro: interamente scritto da Brunvoll e Urheim, l’album trova mirabile compimento grazie sì all’immediatezza di un approccio scopertamente votato all’improvvisazione, ma soprattutto in virtù di una scrittura densa e fitta, capace di generare musica intensa e profonda, sfaccettata, ricca, variegata. La componente jazz è ben presente negli episodi che maggiormente flirtano con figure free-impro, predominanti sia nella pungente title-track - tra echi dub, percussioni ed inflessioni world/etno – sia nella lunga, disarticolata “Yellow Flower”, occupata per metà da movimenti caotici, quindi sublimata da un’aria retrò a due voci, preziosa e lontana nel tempo.
Altrove, a prevalere è un clima rasserenato e caldo, pacifico e morbido, a suo modo curiosamente trascinante: confidenziale ed avvolgente, flessuoso e sinuoso, una progressione melodica incessante in continua evoluzione, un dolce scorrere che di rado insegue la ripetizione, esplorando vie di fuga imprevedibili e mutando pelle ad ogni passaggio, sulle ali della vocalità composta e misurata di Mari.
Così, l’opener “Nils Klim” caracolla su un reggae mascherato per virare – arricchita da flauto e violoncello - verso arabeschi neoclassici, preludio alla reprise del finale; su un latin-jazz adorabile si avvolge “Agadeda”, incanalata da vocalizzi estatici lungo una fusion che ricorda Pat Metheny; la trama carezzevole di “Paper Fox” disegna uno slow notturno à la Mazzy Star (sic!); la breve “Fenomenolodi” richiama suggestioni cinematografiche degne di Randy Newman; i riverberi di “So Low” profumano addirittura – mutatis mutandis – di My Bloody Valentine (di nuovo: sic!).
In coda, rimane lo spazio per le tenui dilatazioni rumoristiche di una vibrante, rapita, sfuggente “Colors” e per la psichedelia leggera di “Limits”, che tra rimembranze pinkfloydiane e raffinate tessiture d’antan condensa uno straniante senso di raccolta intimità in sette minuti e mezzo di soffusa beatitudine, al crocevia tra sogno, desiderio, memoria, emozione. (Manuel Maverna)