DRUNK AT YOUR WEDDING "Ghost gear"
(2024 )
Partiamo dalla fine.
Il brano che conclude “Ghost Gear”, terzo album di Nina Töllner, artista berlinese celata sotto il moniker di Drunk At Your Wedding, ha come testo una poesia di Emily Dickinson. Sul precedente lavoro del 2021, “I Have to Go Home”, ne figuravano altre due, non a caso.
Ecco: quando leggo Emily Dickinson, che amo come un chiodo ama il muro, provo sempre una strana sensazione, quasi fossi attanagliato da una forza misteriosa ed ambivalente. Versi di sopraffina eleganza ed altrettanta soavità svelano una porticina sull’abisso, come se a fungere da contraltare ad un mondo profondamente aggraziato ed armonioso fosse, in fondo, la certezza incrollabile dell’ineluttabile epilogo.
Almeno in piccola parte, ritrovo sprazzi di Emily Dickinson in Nina Töllner, musa in bilico tra canto addolcito, liriche ermetiche ed un suono che a tratti si fa aspro, inaspettatamente brusco; amore & morte fianco a fianco in otto canzoni essenziali, scheletriche a volte, ma suadenti in un modo garbato, sottile e perfido, inebriante e spiazzante, figlie di un songwriting criptico e cangiante scosso dalle vibrazioni infide della chitarra.
Con voce sì carezzevole, ma insinuante, carica di un pathos trattenuto ad arte, Nina pennella quello che sembra un alt-folk misurato e confortevole, molto prossimo negli accenti e nelle movenze alla Vanessa Peters più raccolta; ma è in profondità, nelle viscere di un microcosmo variegato e fremente, che emerge la vera natura di questa musica sibillina e altalenante, custode di un’anima non così pacificata.
Aperto dalla mutevole inquietudine di “An Unkindness of Ravens, a Murder of Crows”, crooning intenso e pastoso sorretto dalle contorsioni della sei corde, con corredo di flamenco, tropicalismi e partenza lanciata à la Police, l’album si infila nell’oscuro, rabbioso crescendo di tensione - dagli accenti country - di “Slow”, indi nell’insistito fingerpicking di “(Not the) Rat”, con recitativo, cambio di tempo ed alternanza di linee melodiche, ed ancora nell’arpeggio in minore, intimo e sofferto, di “Fight or Flight”.
In un trionfo di variazioni, più di quante l’impianto complessivo ed il genere praticato suggerirebbero, vanno in scena brani fluttuanti ed instabili, dall’espressionismo stirato al limite di una sovraccarica “Love & Riots” all’insistito arpeggio della title-track, quasi Mark Kozelek spinto a forza in un arrancare ossessivo e monocorde, vortice di elettricità disturbata che prepara il terreno per il trasognato commiato. Eccola in “Duties of the Wind”, Emily Dickinson: cigno nero di rara bellezza, inevitabile caducità e splendore maestoso a braccetto in un’aria morbida tra Girls in Hawaii e The Big Moon, nobilitata dalla voce angelica di Elspeth Anne Macrae.
Luce ed ombra, realtà ed illusione, presenza e assenza, in attesa di qualcosa di indefinito che si agita, turbato ed afflitto, nel mezzo di una lunga notte. (Manuel Maverna)