UKYA  "We come for an experience of presence"
   (2024 )

A luglio ero stato invitato a una festa privata, in un giardino, dove un attore recitava riflessioni tutte incentrate sul tema del viaggio, e accanto a lui una sassofonista improvvisava liberamente, senza accompagnamento alcuno. Voce e sassofono tenore nel silenzio. Armonia e ritmo li dovevi immaginare, ma la sassofonista era brava: riusciva a farteli percepire, da sola.

Questo invece è un trio norvegese, chiamato ükya (richiedono che la ü sia scritta minuscola), e mi hanno ricordato quella performance in giardino, pur facendo tutt'altro, perché in comune hanno il dialogo col silenzio. Se il free jazz già distruggeva certi riferimenti strutturali e armonici precedenti, questa è la decostruzione del free jazz. Praticamente, una musica sbriciolata. Nessun riferimento melodico né armonico, né ritmico, e forse a fatica timbrico.

“We come for an experience of presence”, uscito per Nakama Records, è una serie di impulsi sonori, generati dal trombone di Emil Bø, dalla chitarra di Kristian Enkerud Lien, e dalla batteria di Michael Lee Sørenmo. Durante la performance, percussioni e strumenti melodici hanno la stessa valenza. Frammenti di suoni e rumori, spesso eseguiti con irrequietezza, anche quando suonati piano. Il risultato è quello di un ambiente che disorienta, dove cercare appigli. Solo in uno dei brani, la batteria assume ruolo ritmico, e con energia. Il trombone è usato spesso e volentieri come tubo d'aria, nel quale Bø boccheggia, senza emettere suoni intonati. Oppure inizia a dilatare singole note, facendole tremolare. Lo stesso dicasi per il chitarrista, che a un certo punto sfrigola sulle corde, simulando l'incedere di un attrezzo a motore.

L'esperienza della presenza è un concetto orientale, che rimanda alla consapevolezza di esserci, proprio a livello fisico, alla propriocezione. Gli strumenti suonati in questo modo diventano autoriflessivi, analizzano il proprio corpo, e i musicisti impegnati a farlo diventano altrettanto consapevoli di sé, nel momento della loro esecuzione, nei confronti dello spazio che li circonda. Forse questo è l'approccio da adottare anche come ascoltatori, per poter ascoltare questo free – free jazz decostruito. Ascoltare il proprio corpo, ispirati dallo svisceramento degli strumenti del trio! (Gilberto Ongaro)