THE BOWERS  "Pieno mezzo vuoto"
   (2024 )

“Pieno mezzo vuoto” è il primo disco del gruppo milanese The Bowers ed è uscito a marzo 2024 sotto l’etichetta Overdub Recordings. In realtà The Bowers (almeno il chitarrista Matteo Campana) hanno cominciato la loro attività nel 2016, ma i frequenti cambiamenti nella composizione del gruppo hanno rallentato il processo creativo.

C’è stata in mezzo anche la pandemia, però – se guardiamo la metà piena del bicchiere – sembra che il lockdown abbia reso possibile una maggiore concentrazione sul lavoro e alla fine la nascita di questo disco: «”Pieno mezzo vuoto” rappresenta il frutto del nostro impegno durante il periodo di lockdown», spiega la band.

C’è una grande armonia interpersonale tra i quattro membri del gruppo, una coesione che si sente appieno nella loro musica. Con soli tre strumenti e una voce riescono a tenere sempre alti i livelli dell’adrenalina, creando un’atmosfera incendiaria, ricca di rumore e ritmo, ma in cui non mancano delicatezza e melodici ritornelli che rimangono impressi nella mente. L’ascoltatore si sente sempre in compagnia, sempre sollevato dal loro sound; non rischia mai di essere abbandonato e lasciato cadere nel vuoto.

La coesione è presente non solo tra i componenti della band, ma anche tra i vari generi musicali che i ragazzi abbinano in modo naturale: punk rock (che costituisce la base di partenza, facendo a volte pensare allo stile dei Marlene Kuntz o dei Verdena), nu metal e anche dei momenti pop che ricordano i generi musicali recitati, tipo rap, di origine afroamericana. Riguardo a questi ultimi, in particolare nei brani “Vuoti” e “Nebbia”, si sente la tendenza a deformare volutamente la pronuncia delle vocali, come se s’intendesse esprimere una sensazione di schifo (come dire “Bleah!”), un’abitudine che oggigiorno molti cantanti hanno; in generale forse si esagera nell’estendere tale modo di cantare a qualunque tipo di brano pop, ma in questo caso specifico è proprio adatto, visto che le due canzoni si riferiscono ad aspetti della vita degni di disgusto: la depressione, rispettivamente la dipendenza.

Oltre a Matteo Campana alla chitarra elettrica, portano un prezioso contributo creativo ed esecutivo il solista vocale Charitha Kamburugamuwa, la bassista Alessandra Biundo e anche Valentino Marchegiani, vera e propria colonna portante dell’intero edificio sonoro, che nei colpi di batteria pone tutta la sua anima.

Se dal punto di vista musicale il lavoro sembra perfetto nel suo genere e l’ascolto delle sonorità ci rende completamente soddisfatti, non lo stesso si può dire del testo poetico, che dà luogo a tante differenti interpretazioni e discussioni… Ma il compito dell’arte proprio questo è: lasciare un senso di incompletezza, ponendo dei problemi e facendo sì che il processo creativo continui nei suoi fruitori.

Un importante protagonista nei testi dei Bowers è decisamente il vino. La band sembra che eviti di parlarne quando spiega il significato del disco, ma in realtà la bevanda in sé non ha nulla di negativo ed è da sempre stata presente nelle manifestazioni letterarie, spirituali e artistiche durante la storia dell’umanità. Già la parola “bower” in inglese vuol dire “pergolato” e ci fa immaginare di ascoltare la loro musica in una vigna, al fresco.

Il disegno del calice “pieno mezzo vuoto” è più che suggestivo ed è intrigante capire come mai, diversamente dalla nota filosofia del “mezzo pieno, mezzo vuoto”, qui la parola “mezzo” compare una volta sola, cioè soltanto prima della parola “vuoto”… Può darsi che l’ideatore del titolo abbia pensato a una specularità degli opposti (pieno/vuoto) in cui la parola “mezzo” serve da specchio (infatti, sulla copertina del disco la parola “vuoto” è scritta con lettere capovolte rispetto a quelle della parola “pieno”). Ma può anche darsi che l’assenza della parola “mezzo” prima della variante ottimista voglia mettere in risalto quella pessimista: aspetti un bicchiere pieno e il cameriere te lo porta mezzo vuoto, al distributore vai a fare “il pieno” e i costi elevati del carburante ti costringono a lasciare il serbatoio mezzo vuoto, ci fanno credere che viviamo delle vite piene (di attività e di beni di consumo) e in realtà sono mezzo vuote perché mancano valori, affetti, sicurezze, motivazione…

Il vino è presente anche nell’interessante e molto ben realizzata canzone intitolata “Donna fugata”. Nel suo testo si potrebbe trattare di una donna che, nonostante affermi di amare l’uomo con cui vive in coppia, è sempre sfuggente e spesso assente (“mi dici che mi ami, ma sei sempre dai tuoi”), così come si potrebbe trattare anche del desiderio di bere del vino: Donnafugata è il nome di una famosa azienda vinicola siciliana e poi ci sono dei versi che dicono chiaramente “concedimi solo un bicchiere, due dita per buttare fuori l’anima” oppure “il tempo di un bicchiere neanche più ce l’hai”. In ogni caso, frasi come “sono solo un uomo” o addirittura “sono una merda” tradiscono la tendenza a trovare delle scuse per giustificare la propria mancanza di volontà nell’impegnarsi per riconquistare la donna amata e/o per moderare il bere.

Anche se le canzoni sono scritte in prima persona singolare, è molto probabile che l’uomo di cui si tratta nei loro testi non coincida con nessuno degli autori. A parte i brani “Quanto basta” e “4 giugno”, sui quali la band dichiara che si riferiscano a dei fatti veramente accaduti, tutti gli altri sono a metà strada tra la realtà e l’immaginazione, ideando quindi dei personaggi e delle storie che possano incarnare al meglio i problemi della società odierna su cui si vuole attirare l’attenzione del pubblico.

Uno di questi problemi è la dipendenza (da sostanze e non solo), ben illustrata nel testo del brano intitolato “Nebbia”. In molti ci sentiamo “attratti verso ciò che ci fa male” – come proprio i membri della band spiegano – e “la dipendenza ci priva della nostra libertà e ci impedisce di vedere chiaramente oltre il nostro stato di dipendenza”. Nel ritornello della canzone si fa spesso riferimento a “un istinto”, come se d’istinto facessimo del male a noi stessi… e infatti, sembra sia proprio così (Freud ha scritto tanto sulla “pulsione di morte”) e pare che la paura e l’insicurezza quotidiane ci spingano a cercare rifugio in uno stato regressivo, simile a quello di quando eravamo nel grembo materno e forse non molto diverso dalla morte. Si potrebbero aprire tanti dibattiti a partire dal testo di questa canzone, se le persone non fossero sempre di fretta e troppo impegnate in altro.

A braccetto con la paura e con l’insicurezza, che spesso portano alla dipendenza, va la depressione. Essa genera il senso di vuoto, stato d’animo che accompagna non solo dei vissuti psicopatologici, ma anche molti momenti presenti nella vita di persone considerate “normali”. “Vuoti” è un brano che descrive proprio questo stato d’animo: ci si trova in uno scenario “simile alla fame che ti morde” (una fame dell’anima percepita a livello fisico), ci si domanda “dove sono i desideri” (cioè la fonte più immediata di senso e di motivazione per vivere), si osservano “i nervi spenti dall’abitudine” (quindi l’assenza di stimoli che li possano riaccendere). Sicuramente molti ascoltatori si riconoscono in questo testo, a prescindere dalla sua sintassi forse non tanto accurata.

Vuoti sono anche i sentimenti, in un mondo in cui l’amore decade riducendosi a mero piacere passeggero. Ce lo conferma la canzone “Quanto basta”, ispirata a una delusione veramente vissuta dall’autore del suo testo: “Effimera avventura amorosa, un amore non corrisposto. Una ragazza giovane dentro, un’estate fugace durata un attimo, per poi sfiorire in un autunno amaro e vuoto”… Ecco, ancora il senso di vuoto: “un vuoto inafferrabile, senza confini”, come viene qualificato nel testo della canzone. E per quanto la sua franchezza possa urtare la sensibilità delle persone più ingenue, il verso “volevo la luna, tu soltanto scopare” non è fuori luogo e illustra molto bene il basso livello raggiunto dal sentimento amoroso nella società usa e getta in cui viviamo.

Ma non è finita qui; c’è anche di peggio… La noia e la mancanza di una guida verso i veri ideali porta al sovradimensionamento dell’immagine che abbiamo del proprio ego, “persuadendoci che il centro dell’universo risieda in noi stessi”, mentre in realtà si tratta solo di una dannosa illusione che ci fa trovare piacere nel veder soffrire gli altri invece di vivere la propria esistenza: il brano “Mario livore bros” punta il dito verso il problema dell’illusione di essere forti, come se la vita reale fosse un videogioco in cui si scelgono e si assumono a piacimento delle false identità. Infatti, anche alcuni militari costretti a combattere nelle guerre attualmente in corso dichiarano che all’inizio avevano l’impressione di giocare un gioco al computer e che solo dopo diversi giorni hanno realizzato che il disastro a cui prendevano parte era vero.

Violenza generalizzata, a livello sociale e individuale... Il 4 giugno è la data quando il chitarrista della band ha subito un brutale attacco e pestaggio dopo un concerto di un noto rapper italiano ed è proprio di questo episodio di violenza che si tratta nel brano “4 giugno”. E quando senti i Bowers cantare “immune ai tuoi colpi risorgo, la fronte è spaccata, ma il cuore anche no” e, due giorni dopo, ti capita di sentire il versetto 10.28 del Vangelo secondo Matteo in cui viene detto “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”, non puoi non stupirti dalla coincidenza… se veramente di pura coincidenza si tratta.

Buon ascolto a tutti e vita lunga a The Bowers! (Magda Vasilescu)