PIERNICOLA PEDICINI  "Radio Sud Globale"
   (2024 )

Non saprei stabilire con assoluta certezza se l’ascolto di questo album possa prescindere, in toto o in parte, dal curriculum extra-ordinario decisamente importante del suo autore.

In realtà, la questione è forse secondaria: è vero che il ruolo ricoperto da Piernicola Pedicini in qualità di europarlamentare negli ultimi dieci anni non è affatto trascurabile, così come lodevoli sono la sua formazione accademica (ha una laurea in Fisica teorica ed una specializzazione in Fisica medica) ed il pluriennale impiego presso l’Ospedale Oncologico Regionale di Rionero. Ma – sorprendentemente - è anche un delizioso cantautore, di scoperto impegno sul versante socio-politico e di gradevole ascolto, per quanto gradevole si possa considerare una proposta così sofferente e vicina agli oppressi, agli sfruttati, agli ultimi.

Terzo lavoro dal 2020, “Radio Sud Globale” sposta il focus rispetto ai due lavori precedenti: pone in disparte il recupero della tradizione meridionale e, con forza, si fa politico latu sensu. Il sud diviene concetto astratto, avulso dall’appartenenza territoriale, e Pedicini muta da colto aedo a cantore apolide, rinunciando a bandiere, etichette, classificazioni, riconoscendo pari dignità a qualsivoglia cultura, condizione, etnia. Disco fruibile, eppure complesso, “Radio Sud Globale” scandaglia le profondità delle umane miserie, ricorrendo ad un linguaggio che pesca a piene mani da quel sud del mondo elevato ad emblema delle molte contraddizioni del vivere quotidiano.

L’alternanza di lingue disegna i contorni della grande Babylon in cui un microcosmo boschiano lotta per mezzo pane, per gli ultimi brandelli di consapevolezza o forse solo per la necessaria sopravvivenza. E’ un idioma meticcio, che alterna dialetti nostrani (napoletano nell’afflitta opener “Famme restà”, sardo nella toccante “Andai a lu mari”) ad inglese, francese e spagnolo, in una babele di rara intensità espressiva cui fa da contraltare un taglio pacato e riflessivo dei brani: il riferimento immediatamente apprezzabile è sicuramente all’inconfondibile flow ciclico di Manu Chao, sebbene non manchino inflessioni à la 24 Grana in “Parfois la vie” o suggestioni memori dei C.S.I. più incalzanti ne “La liberté”, con campionamento - quanto mai attuale - di Julian Assange e passo spedito a supportare un testo minimal ripetuto ad libitum. Percussioni, chitarre gitane e tonalità immancabilmente minori disegnano i contorni di un eden rovesciato, racchiuso in dieci lunghe tracce per cinquantatré minuti di varia morbidezza, contrappuntati da inserti accattivanti (pregevole la tromba in “The Crown”), avvolti da un’aura infidamente ammaliante, scossi da repentine impennate (“Fly away”), chiusi dal piccolo grande dramma familiare – la parte per il tutto – di una “Waiting for my love” che sa di dolorosa resa ad un destino impietoso, irreversibile, inevitabilmente segnato.

Forme e contenuti che vicendevolmente si alimentano danno vita ad un milieu ricco e sfaccettato, tra echi minacciosi di guerra e globalizzazione, neocolonialismo ed emigrazione, diritti umani e condizione femminile, per citare solo alcuni dei temi affrontati: non una passeggiata di salute, sebbene la lievità del suono ed un crooning confidenziale rendano più digeribile l’invettiva. Disco che ben si presta alla riflessione, appena addolcito dai modi gentili della narrazione, racconto accorato che fustiga in punta di voce, lanciando i suoi strali acuminati contro le molte iniquità di un mondo sempre troppo imperfetto. (Manuel Maverna)