HAZY LOPER  "The shadow carvings and other short poems"
   (2024 )

La prima volta che ho ascoltato questo disco è stato un mercoledì di giugno, di primo pomeriggio, attraversando Milano in macchina per andare alla visita periodica dall’urologo, quindi non esattamente la situazione ideale, ça va sans dire. Troppo confidenziale e profondo per rendere al meglio nel traffico, sotto il sole, a quell’ora poi, con la digestione in corso e il Dottor B. che ti aspetta. Prometteva bene, ma clacson e concentrazione non vanno d’accordo.

La seconda volta che ho ascoltato questo disco è stato una mattina di giugno, verso le otto e mezza, mentre lavoravo da casa: dovevo svolgere compiti compulsivi, perciò mi sono permesso di eseguirli con musica in cuffia. Alla mia sinistra, oltre le finestre spalancate a catturare l’aria più fresca concessa dall’orario, un cielo grigio ed una pioggerella leggera completavano lo scenario ideale. Il disco assecondava al meglio le avverse condizioni meteo, con precipitazioni sparse in atto.

La terza volta che ho ascoltato questo disco è stato un pomeriggio di giugno, verso le quattro, seduto sul divanetto in similpelle della scuola di canto dove accompagno mia figlia ogni venerdì. Ecco, mentre lei è a lezione ed io aspetto che finisca, mi rilasso. Sto lì a pensare ai fatti miei: di solito leggo, a volte semplicemente ascolto musica, a volte entrambe le cose, ma per leggere Picozzi con la musica in cuffia devo azzeccare un abbinamento perfetto tipo Chablis-ostriche, e non è facile. Quindi, ho lasciato perdere Picozzi ed ho seguito i testi sul libretto del cd. Tra parentesi, gran bell’artwork di copertina, opera di Martino Louis Tarantola.

A questo punto, mentre aldilà del muro mia figlia terminava un’esecuzione più che dignitosa di “Jolene”, ho avuto il quadro completo di “The shadow carvings and other short poems”, ultima bizzarra fatica di mr. Patrick Kadyk sotto la sigla Hazy Loper, pubblicata ancora una volta per la Ribéss di Giulio Accettulli, etichetta che di bizzarria ben volentieri si pasce.

Una puntualizzazione: questo disco è lontano anni luce dalla musica che ascoltate.

Non solo: è lontano anni luce dalla musica che gira intorno, quella che non ha futuro.

E’ lontano per ispirazione, temi, arrangiamenti, scrittura, struttura.

A pensarlo e realizzarlo, mr. Patrick Kadyk, artista disallineato, sciamano eremita che vive con la compagna di lungo corso Laurie nella piccola cittadina-non cittadina di Guerneville (leggetevi qualcosa su Guerneville e forse capirete meglio Patrick), un’ora a nord di San Francisco, poco oltre il bosco, lungo il fiume. Un tizio che, in una trentina d’anni, di musica ne ha realizzata parecchia, spesso pregevole. Il progetto Hazy Loper, oramai di fatto act solista, è la spina dorsale della sua produzione sui generis, musica sbilenca nata da una mente sbilenca. Una panoramica di sbieco che va oltre il visibile, tra religiosità esplicita, speranze ben riposte e fiducia-nonostante-tutto.

Nel presente caso, è andata più o meno così: Patrick scrive alcune poesie, poi le musica e le canta suonandoci sopra il banjo. Peter Whitehead registra in the U.S.A, quindi invia il tutto alla Ribéss, dove le creature – esili, scarne, essenziali - vengono prese in consegna da Aldo Becca, musicista di indiscussa esperienza che, col benestare dello stesso Patrick, le arricchisce sovrapponendo strumenti, di fatto arrangiando le composizioni secondo un gusto personale che integra senza snaturare. Partecipano al progetto lo storico partner Devon Angus (cori), Michele Alessandri (contrabbasso) e di nuovo Peter Whitehead (violoncello), che portano il loro mattoncino. Mixano Franco Naddei a Forlì e Alex Oropeza a San Francisco. A Patrick va benone, anzi: non immaginava che il tutto potesse funzionare così bene anche in questa nuova veste.

Distante dal mood incupito che agitava in profondità la caliginosa atmosfera di “Ghosts of barbary”, ultimo capitolo a nome Hazy Loper datato 2014, “The shadow carvings and other short poems” ambienta le sue favole astratte in un altrove quasi mistico, offrendo uno squarcio invitante su un prezioso tesoretto di piccoli fragilissimi film. Melodie appena accennate, esangui e diafane, si attorcigliano sull’arpeggiare secco del banjo, richiamando in superficie qualcosa di ancestrale, antico, primordiale. E’ un folk scarno e basico, eppure rigonfio di promesse e pulsante di vita, una raccolta di versi lastricati di buone intenzioni ed animati da una ricerca assidua della perduta tranquillità interiore (“Western sky”).

C’è molto cielo, lo sguardo è verso l’alto, luce e nuovi orizzonti si impongono sul cuore di tenebra che opprimeva le trame buie di dieci anni fa; spesso sviluppati in tonalità maggiori, brani raccolti ed intimi assecondano un umore addolcito ed un sentimento pacificato, nonostante l’accento sulle molte asperità del cammino sia un’altra costante con la quale fare i conti. Il tempo scorre, la strada si accorcia, l’epilogo si intravede alla fine dei giorni: occorre scendere a patti, cercare salvezza, magari dialogando con l’Altissimo per trovare redenzione (“Easter morning”), pur con legittimi dubbi ed altrettante incertezze, nel tortuoso cammino verso la lucida presa di coscienza di ogni umana debolezza.

Un realismo paradossalmente visionario - filosofia sincera e disincantata affinata sul campo, aperta ad una chance di uscita con stile e dignità - si snoda con pacata malinconia tra armonie nude e spoglie (“The promise”), suggestioni spiritual (“Rain on me”), grida di dolore compassato (“Narrow way”), episodi di quotidiana difficoltà (“Wheel of pain”), mai cedendo alla rassegnazione o a funesti presagi, concedendosi una possibilità, uno spiraglio, un’ipotesi di riguadagnata serenità. Con coraggio, non senza stoicismo.

Now it’s time to make up time/now it’s time to take up time...

A prevalere è quella fiammella che brilla al termine della notte, la consapevolezza che un'altra volta verrà domani, e che forse, a conti fatti, non sarà neanche così male. (Manuel Maverna)