LUCIANO TARULLO  "Qualcosa di vero nel mondo"
   (2024 )

Cantautore e musicista con un alto livello di preparazione accademica e culturale (laureato al DAMS, ex Direttore Artistico del live club “Officina72” di Agropoli e attualmente docente di Musica presso l’Istituto Comprensivo “Francesco Mastriani” di Napoli), Luciano Tarullo realizza in studio il suo secondo album, suggestivamente intitolato “Qualcosa di vero nel mondo”.

Dal punto di vista dell’autore stesso, il disco “si pone come faro di riflessione, guidando l’ascoltatore verso la scoperta di un significato più profondo” e verso la comprensione del fatto che “in un mondo sempre più frenetico e alienante, la nostra salvezza risiede nel prendersi cura gli uni degli altri, nel tendere una mano e nell’accettare il supporto reciproco”.

Infatti, tutti i testi degli otto brani compresi nell’album hanno al centro la relazione interpersonale (quasi esclusivamente quella di coppia uomo-donna) come riferimento compensatorio della sensazione di smarrimento che oggigiorno caratterizza lo stato d’animo quotidiano di ogni individuo.

A un primo ascolto si può notare il carattere altamente verbale delle canzoni; sono testi “pieni zeppi” di parole, come una specie di lezioni scolastiche frontali, che determinano nell’ascoltatore la necessità di prendere appunti scritti per poter concentrarsi meglio sul loro significato... Ma ascoltando diverse volte, entrando nell’intimità dell’opera e soprattutto informandosi sulle varie “tappe” di realizzazione che l’autore ha percorso in diversi anni addietro, l’impressione cambia e tutto diventa decisamente più familiare e più emozionante di com’è inizialmente sembrato.

Molto carico di vitalità e di significato è il brano nato per primo in ordine cronologico, intitolato “Di rosso e di viole” (2020). Non a caso – come l’autore racconta – questo brano “ha portato con sé una grande fortuna e affetto da parte del pubblico”. È essenziale guardare il video che accompagna la canzone e che ha come protagonista la modella di origine romena Dana Anghelescu, donna di una particolare e autentica bellezza. Intorno al suo volto, come dei raggi di sole, nascono lo sfondo strumentale da ballata rock – con tanto di batteria e chitarre elettriche – e la storia melodica in rima raccontata con una perfetta dizione dalla voce del cantautore.

L’idea centrale nel testo del brano “Di rosso e di viole” è, secondo la spiegazione offerta dall’autore, il valore dell’attesa: dopo aver conosciuto la donna amata, l’uomo è costretto ad allontanarsi da lei e a tornarci dopo tanto tempo, quando la ritrova nello stesso luogo e facendo le stesse cose di prima. Però, stando attento alle parole, l’ascoltatore può scorgere pure un altro importante dettaglio: mentre l’uomo vive in un piccolo paese salernitano lontano dalla modernità (“Il mio paese niente sapeva/ Di ciò che nel mondo ogni giorno accadeva”) e immutato nelle sue tradizioni ripetitive (“Uomini stanchi consunti dal sole,/ Donne lasciate da sole”), colei che porta con sé l’aria fresca del cambiamento e l’apertura alla novità è proprio la donna straniera… un capovolgimento, dunque, del diffuso pregiudizio secondo il quale gli immigrati stranieri possano causare un rallentamento del progresso individuale e sociale autoctono.

Andando avanti nel tempo arriviamo all’anno 2022, nel quale esce il singolo “Insegnami a sorridere ancora”. Diversi fattori, tra cui la paura del virus pandemico e le limitazioni della libertà individuale subite per due anni, fanno sentire il cantautore catapultato in un mondo disgregato e freddo, che non è più come prima: “C’è qualcosa nell’aria di strano,/ La gente non è più capace di dirsi “Ti amo”. E nonostante tutto, il sorriso della donna amata riesce a compiere meraviglie: “Ma c’è qualcosa che, appena sorridi, mi ricorda le corse nei campi di ulivi”; “Ma c’è qualcosa che, appena ti guardo, tutto il male del mondo sembra essere stato spazzato”.

La canzone “Insegnami a sorridere ancora” sembra essere il fulcro dell’intera opera, quella che meglio di tutte rende l’idea compresa nel concetto dal quale l’autore è partito (o al quale intende arrivare). Non a caso il titolo dell’album coincide con l’inizio della seconda strofa di questo brano: “C’è QUALCOSA DI VERO NEL MONDO e qualcosa di profondamente sbagliato”. Sempre nel 2022 Luciano Tarullo allarga la prospettiva artistica dalla sfera meramente affettiva a quella della società in cui viviamo, osservandone la grottesca immagine. Su uno sfondo strumentale che ricorda molto il genere hard & heavy degli anni ‘80, nel brano “Quello che siamo diventati” l’autore fa girare un film fatto di terribili realtà nell’immaginazione di chi ascolta: la crisi dei mercati, i crimini di guerra, una generazione che “non sa distinguere il bene e il male e pensa sia normale”… insomma, “quello che siamo diventati è un mostro che non ha paura di venire fuori”.

Altri due anni più avanti, cioè poco prima dell’uscita di questo album, nasce un delicato singolo intitolato “Quando scopriremo di essere grandi”, che potremmo senza troppi torti considerare un gioiellino musicale. L’autore lo colloca per ultimo nel presente disco, forse con l’intento di concludere in un’atmosfera di bellezza, di luce e di saggezza. Il brano colpisce positivamente per la sua semplicità, per l’equilibrio del testo poetico e per la maestria chitarristica del cantautore. È una canzone di tipo folk, che – spiega l’autore – “riflette sulla consapevolezza che le cose erano più facili e più semplici in passato” e invita a “un’accettazione della natura mutevole della vita”, ad “affrontare le difficoltà insieme, in due” e a “vivere pienamente il presente”… “prima che si faccia troppo tardi, e scopriremo di esser grandi”.

Per quanto riguarda invece gli altri quattro brani, creati apposta per arricchire questa raccolta, vi si può notare un’apparente monotonia ritmica, melodica e timbrica, come se tutto fosse uguale, di un grigio senza sfumature alcune… Forse soltanto in “Puoi chiedermi quello che vuoi” il lamento degli archi vagamente ci ricorda che siamo vivi… Ma l’espressione dell’appiattimento emotivo è anch’essa un modo per comunicare agli altri il proprio stato d’animo e per richiamare l’attenzione verso il problema dell’indifferenza che pervade l’intera società. È come gridare: “Aiuto! Ci siamo distaccati da tutto e non possiamo più sentire nulla!”.

Proprio questo si vuole trasmettere anche nel testo della canzone “La nostra fortuna”, nella quale si allude alla derealizzazione (“Ho perso ogni contatto con la Terra”) e alla depersonalizzazione (“Ho perso ogni contatto con me stesso”), inquietanti vissuti soggettivi con cui in alcuni momenti della vita si confrontano tante persone, non solo quelle affette da disagio psichico. Strappano il cuore i versi in cui l’autore afferma di essere (= di sentirsi come se fosse) “il capitano di una nave che ha perso la sua rotta e non sa dove andare”, perché “se guardo verso il mare, qualunque direzione mi sembra che sia uguale”. E l’unica speranza di trovare una guida che lo possa far risorgere interiormente risiede nello sguardo vivo e luminoso di lei: “Tu che guardi da sempre stupita ogni cosa del mondo/ E ogni cosa, a sua volta, si stupisce di te,/ Sai per caso indicarmi la strada?/ La mia casa, il mio posto nel mondo sai dirmi qual è…?”. Però, colpo di scena, alla fine veniamo a sapere che anche la donna in cui l’uomo pone le sue speranze abita da tanto tempo in un mondo tutto suo e forse proprio per questo lei riesce a sembrare più viva di lui: “È come credere in Dio o in qualcosa più grande di te/ O cercare riparo durante una pioggia d’estate/ E riuscire a trovare conforto negli occhi di lei/ Che ha perso ogni contatto con la Terra molto prima di me”.

La canzone “Il mondo capovolto” in qualche modo continua l’idea introdotta con “La nostra fortuna”. Non si tratta di un’inversione del mondo nel senso orwelliano, né tanto meno del “mondo al contrario” presentato nel libro del Generale Vannacci, bensì di “un universo surreale e fantastico”, in cui “il concetto di tempo si mescola in una danza senza regole” e nel quale “ogni elemento familiare diventa distorto e stranamente affascinante”… un universo che però può sembrare reale a chi ha perso i riferimenti: i bambini vanno al lavoro mentre gli adulti si scordano di farlo, la paura è partita per un viaggio senza ritorno, i padroni sono diventati servi dei loro schiavi, non c’è più bisogno di alzare la testa per guardare il cielo ecc… Tuttavia c’è una ragazza di nome Chiara (forse non a caso ha proprio questo nome), “l’unica ancora di normalità”, l’unica in grado di osservare con chiarezza il mondo così com’è e di rimanere “saldamente ancorata alla realtà”.

Infine, nelle canzoni “Per tutte le volte” e “Puoi chiedermi quello che vuoi” viene espressa per mezzo di frasi molto ricche di parole la necessità profonda dell’autore di avere accanto una persona che lo ascolti e che lo capisca; necessità che in qualche modo è presente in tutti noi, anche se per orgoglio molti non lo ammettono. “Per tutte le volte” richiede molta pazienza da parte dell’ascoltatore (sembra poco adatta a un pubblico giovanile), sia per via del suo ritmo invariatamente lento, che soprattutto a causa della complessità sintattica del discorso: la canzone, quasi tutta, è formata da proposizioni subordinate (forse 13, se le ho contate bene!) introdotte dalla parola “per”, mentre la proposizione principale si trova solo alla fine, dopo averla dovuta aspettare per tanti minuti… ma la capacità di attesa, come si evince anche dal brano “Di rosso e di viole”, viene pienamente ricompensata: “Noi siamo due anime sole che cercano in questo Universo/ Qualcuno che ci tenda la mano e ci porti con sé./ In questo Universo, alla fine, hai trovato me;/ In questo Universo infinito ho trovato te”.

“Puoi chiedermi quello che vuoi” è abbastanza simile, come struttura musicale e poetica, a “Per tutte le volte”; forse l’argomento si estende un po’ di più all’area sociale e nazionale (“Ma quale futuro ti aspetti da chi vuole entrare nelle vite degli altri?/ Da chi giudica senza sapere e preferisce l’ombra alla luce dei fatti?/ Ma quale futuro ti aspetti da questa nazione?/ Quale rivoluzione?/ Ma quale silenzio possiamo trovare dentro questo rumore?…”), ma complessivamente l’idea centrale è sempre quella dell’amore come soluzione per tutto il male del mondo… o come QUALCOSA DI VERO NEL MONDO, la cosa che meglio di tutte le altre può contrastare la bugia e la falsità.

Un disco, questo, per le menti mature, un album che – nonostante il travaglio intellettuale necessario per crearlo e per ascoltarlo consapevolmente – alla fine a qualcuno riesce anche a strappare qualche lacrima di commozione… Fidatevi! (Magda Vasilescu)