ROBERTA GIALLO  "Reminiscenze"
   (2024 )

Mi piace pensare che Roberta Giallo sia l’anello mancante.

Da una parte, la canzone impegnata; dall’altra, il puro intrattenimento.

Nel mezzo, lei. Che, vezzosamente e non senza divertito autocompiacimento, si proclama diva con umiltà, mentre offre in musica - azzardo il parallelismo - una singolare autorialità con leggerezza.

Artista ad ampio raggio, brillante e pungente, romantica e caustica, profonda sì, ma con misura, accoppia vocalità squillante e pensiero critico in un milieu che la identifica e la distingue nell’andazzo generale.

Scrive bene e canta ancora meglio, è performer ardita e vivace, potrebbe percorrere strade impervie se soltanto lo volesse, ma in fondo ama il gioco, lo scherzo, l’ironia, la celia, prediligendo un approccio votato ad accondiscendenza nei confronti del suo sempre più nutrito uditorio. Anziché spingere, si ferma poco al di qua del muro della fruibilità che separa la musica dotta dal cantautorato di classe, con attenzione al suo pubblico, che la reclama così com’è: frizzante, mai vacua, schietta nei modi, elegante d’intelletto, un po’ folle nel look, sopra le righe sì, ma q.b. per non esserlo davvero.

A due anni da “Canzoni da museo”, deliziosa tappa in quei territori alti di cui si diceva e nei quali Roberta sa muoversi con disinvoltura, “Reminiscenze” la ripresenta in veste gradevolmente sorprendente; gioioso e visionario, intenso e naïf, dispensa la sua variegata filosofia - affatto spicciola - nei tre o quattro minuti di brani godibili, arricchiti da una scrittura accattivante, da arrangiamenti centrati, da testi non cerebrali, eppure ricchi di sfumature che ne esaltano l’efficacia.

Mezzora, otto pezzi: come si usava una volta, provvida essenzialità dritta al punto, niente fronzoli, nessun riempitivo.

Introdotto dalla variopinta e sfavillante copertina realizzata da Valerio Mengoli, mosso da una verve che spinge ben volentieri verso territori inesplorati, acceso da un’anima pop come mai prima, vivacizzato da una narrazione che è un hellzapoppin tra ricordi, speranze, sentimenti e chissà cos’altro, l’album si apre con un trittico prodigioso, al contempo dichiarazione d’intenti e manifesto programmatico. In cartellone, rimembranze di vita passata, great expectations per il futuro, aspettative e desideri a tinte rosa. Nell’ordine: “Curriculum”, mordace opener dall’afflato George Brassens 2.0; “Ci salveranno gli alieni”, stralunato compendio immaginifico, con quattro temi melodici in sequenza a tratteggiare la canzone perfetta, sublimata da un chorus imperioso; “Voce al bene”, costruzione audace, lirismo lieve e non affettato, in prezioso ed equilibrato duetto con Samuele Bersani.

Il resto dello show conserva intensità, promette faville, regala interesse: affatto prevedibile il battito incalzante di una “Fuggi da Babilonia” che richiama Alteria mentre flirta con un bel rock pulito da FM; suggestivo il sogno ad occhi aperti, suadente e pulsante, di “Di pianeta in pianeta”, ennesimo ritornello-killer; contagiosa la tenerezza briosa di “Lulù”, altro refrain catchy e movenze à la Ivan Graziani; toccante il sentito e sincero omaggio a Bologna de “La città di Lucio Dalla”; esuberante la chiusura di “No standard”, battito sostenuto alla maniera dei Dirotta su Cuba, tinte vagamente jazzy ed inequivocabile messaggio di libertà.

Non sono solo canzonette, lo si percepisce dietro quell’aria sbarazzina, nell’intento - chiaro, evidente - di creare qualcosa che sia altro: la ragazza sa di essere un passo avanti, ma non lo fa pesare, truccata da chanteuse for the masses con enorme onestà professionale ed una semplicità che è tale solo in apparenza. Canzone d’autore o pop sui generis, poco cambia: è musica colorata, di giallo e blu, viola e nero, di ogni tinta apprezzabile aprendo gli occhi su questo piccolo mondo fatato, un diorama che attrae col suo fascino lontano, insolito, curioso.

110 e lode in Filosofia Morale/nell’era digitale non so se mi salverà: auguri, darling, anche se non ne hai bisogno. (Manuel Maverna)