LOLITA TERRORIST SOUNDS  "St. Lola"
   (2023 )

Malsano, sporco, deviato, lascivo e decadente, intriso di un afflato malevolo che ne agita le trame, “St. Lola” vede il debutto del progetto berlinese Lolita Terrorist Sounds, nato e sviluppato attorno al duo formato da Maurizio Vitale (voce, chitarra, elettronica, percussioni) e Roderick Miller (piano), ai quali si aggiungono per l’occasione nomi illustri di questo world apart, in primis Kristof Hahn, storica chitarra degli Swans.

Ennesima declinazione del sempiterno verbo post-punk, imbastardito con una forte componente avant, spinta ben oltre i limiti già smarginati di un linguaggio di confine, l’album assume le sembianze di una cupa sinfonia per basse frequenze, voce baritonale, rumori di fondo, testi criptici virati noir.

A troneggiare su cotanta problematica desolazione è un’inquietudine opprimente, dispensata lungo una incessante litania di sinistri rintocchi, lamenti dall’abisso, rimbombare ferale, demoniaco sferragliare. Compendio di negatività innalzata a credo e maniera, striscia come nera serpe tra macerie di (dis)umanità a brandelli una narrazione spezzettata lasciata a liriche succinte ed evocative, altrettanti frammenti da ricomporre in un puzzle distorto e sfigurato.

Haunting e haunted, registrato con spartana essenzialità in un edificio di Berlino Est ex-sede dei servizi segreti ai tempi della guerra fredda, il disco – autentico, mai atteggiato - si balocca con rara maestria in una bolla espressionista che flirta con pulsioni industrial, raggiungendo climax e perfezione formale nel devastante trittico conclusivo, venti minuti soffocanti, stritolati tra clangori sinistri e vocalizzi dal baratro.

Contrappuntato da una ritmica non lineare - che quasi mai guida, spesso asseconda – e dalle incursioni cangianti del violoncello di Anke Brauweiler, il mood generale rimane buio e fosco, tetro a volte: solo di rado è la canzone a prendersi la scena, mentre più spesso la scrittura indulge a tentazioni free form, qualcosa tra i Bauhaus più off e certe elucubrazioni ondivaghe di David Tibet o dell’ultimo Scott Walker, ma con un taglio molto più abrasivo, urticante, incombente.

Vestigia indiziarie di supposta normalità si riscontrano nel battito più regolare di “Prison song”, sfigurata da inserti lancinanti della chitarra, o nel pulsare insistito di “Mind the gap”, su un tappeto di rimembranze eighties, ma a prevalere è lo sfoggio di personalità che trova compimento negli episodi più distaccati dal canone: l’algida, martellante bordata monocorde dell’opener “Shaved girl” (con cameo del compianto Bob Rutman, geniale pioniere della visual art), le movenze dada di “Red carpet”, il focoso inno al nulla di “Curse”, la cadenza mortifera della title-track con quel feed me as I’ll feed you ossessivamente ripetuto per duecento interminabili secondi, la chiusura plumbea di “Living-in-glory”, nove minuti di tenebra totale a calare il sipario sulla notte più fonda dell’anima.

Aleggia prevalente e dominante su “St. Lola” il vivido sentore di qualcosa di sbagliato, di sottilmente perverso: qui risiede la sua misteriosa bellezza rovesciata, che bellezza non è, ma attrae come il canto letale di una sirena assassina. (Manuel Maverna)