ARPIONI "Rido e piango che non si sa mai – Jannacci secondo noi"
(2023 )
Ho cinquantadue anni, sono nato, cresciuto e vissuto a Milano, zona Niguarda.
Avendolo imparato day-by-day dai miei defunti genitori, capisco e parlo correttamente il dialetto milanese, roba rara e preziosa oggidì, mica lapislazzuli.
Oltre a ciò, al fu Roberto – mio padre, nato, cresciuto, vissuto a Milano, zona Città Studi – ed alla buonanima di mia mamma Graziella – nata, cresciuta e vissuta a Milano, zona Foppa/Bolivar - sono debitore di molto altro, tra cui l’avermi introdotto – ancora bambino – al culto di Enzo Jannacci, bandiera, monumento, emblema di una Milano che non esiste più.
Mio malgrado, mentre la vita scorreva alla stessa velocità con la quale io passavo dai Police agli Iron Maiden ai Cure agli Helmet, Enzo Jannacci era sempre lì sullo sfondo, intoccabile: un’istituzione che ho imparato ad amare come merita, dopo ripetuti ascolti, tentativi, spiegazioni, approfondimenti. Alla fine, mi sono scoperto suo devoto e tuttora lo sono, fermamente convinto che sia pressoché impossibile da coverizzare. Per citarne uno, di recente, anche Elio si è cimentato nell’ardua tenzone: bene per l’intenzione, che è lodevole e sincera, però, mah.
In questo splendidamente autoprodotto “Rido e piango che non si sa mai – Jannacci secondo noi”, gli Arpioni - storica band ska bergamasca - con altrettanta devozione, con rispetto ed umiltà hanno approcciato il repertorio di Enzo nel solo modo possibile: con deferenza, senza mirare a strafare o a forzare la mano, ché tanto è impresa destinata a fallire. Hanno pescato dal vasto repertorio del Nostro alcuni brani più rappresentativi, altri minori, privilegiando pezzi da poter rendere fedelmente in veste ska o similare. Non calcano, non esagerano, già era esagerato abbastanza Lui per tutti quanti, ci mancherebbe. E allora, perfino abusati tormentoni ante litteram con innata tendenza a sbracare, come “E la vita” – piazzata lì in bella apertura – conservano una freschezza ed una pulizia di esecuzione che li riveste di un manto nuovo, perché in ciò sta la pregevolezza dell’operazione: aggiornare Jannacci ai tempi, con suoni puliti, voci pulite, parole scandite. In un certo senso, rendono giustizia e onore a Jannacci senza mai snaturarlo o scimmiottarlo, anzi: lo avvicinano, plasmandolo in guisa più ascoltabile, più normale, perché Jannacci – diciamolo - non è mai stato poi così facile come autore. Tragedia e commedia, il dramma e la burla, umorismo surreale, tragicomico e grottesco alternato ad altrettanta mestizia intima, introspettiva e amara: a volte, tutto negli stessi tre minuti di una canzone, a volte fianco a fianco nel medesimo album.
Scelgono senza condizionamenti, gli Arpioni, in libertà e lievità, senza badare alla pregressa notorietà delle canzoni: rimangono fuori quasi tutti i pezzi da novanta, ad eccezione di “Veronica”, la toccante “El me indiriss” (con ben centrato featuring di Paolo Rossi), la già citata “E la vita” (con Elio Biffi dei Pinguini Tattici Nucleari), una spumeggiante “Silvano” e quel prodigioso quadretto di grigia desolazione che è “Io e te”, qui riproposta in chiave reggae.
Il resto sono perle - in alcuni casi sconosciute ai più - ben celate tra le pieghe di una discografia che merita di essere riscoperta anche nel suo splendore meno evidente. Da “L’artista” (pubblicata per la prima volta nel 1962 e presente anche nell’ultimo lavoro postumo datato 2013) a “Per la moto non si dà”, con testo di Dario Fo, da “Il dritto”, con uno tra i suoi mille personaggi improbabili, a “Pensare che…”, trasformata in un singalong à la Roy Paci, fino alle più note “Secondo te…Che gusto c’è?” e “Rido”, il disco bada all’essenziale, è vero: ma nell’essenzialità è perfetto, ed altro non gli si può chiedere.
Quando ero in seconda media, una sera a cena dissi ai miei che la settimana successiva saremmo andati con la scuola a teatro. “Bello – disse mamma – e a che teatro vi portano?”. “Al Carcano”, risposi.
“In pé!”, esclamarono all’unisono.
Questa, chi l’ha capita l’ha capita; per gli altri, c’è sempre tempo per rimediare.
Ciao Enzo, ti ricordo ancora come un primo amore. (Manuel Maverna)