ESPERANTO "Voices"
(2023 )
Voluto dal polacco Zamenhof, l'esperanto fu un tentativo di fine Ottocento, di creare una lingua universale, studiando più lingue, e notando gli elementi in comune. Doveva essere la lingua possibilmente più comprensibile, andando a collegare le caratteristiche di lingue slave, latine, anglosassoni e ugrofinniche. Ancora oggi ci sono gli esperantisti, tanto che l'Unione Europea ha riconosciuto l'esperanto come seconda lingua ufficiale del Vecchio Continente. E su YouTube, si può verificare l'esistenza di un vasto repertorio di canzoni in tale lingua artificiale.
Gli Esperanto, trio jazz composto da Luca Falomi alle chitarre, Riccardo Barbera a contrabbasso e basso elettrico, e Rodolfo Cervetto a batteria e percussioni, si sono fatti carico di un tale pesante nome d'arte, perché ne sposano la filosofia anche in musica. Sì, è jazz perché ci sono parti improvvisate, ma c'è di più. Numerosi ospiti, soprattutto sei voci: Esmeralda Sciascia, Cluster, Petra Magoni, Stephane Casalta, Ensemble Tritonus, Alessia Martegiani. Poi c'è Anais Drago al violino, Tina Omerzo al piano, Edmondo Romano al sax, ed Olmo Manzano a cajòn, bongos e palmas. La pluralità di voci rappresenta bene questa volontà di accogliere e armonizzare le diversità.
Inoltre, i brani sono composizioni ben strutturate, e con un certo grado di emotività, nelle scelte armoniche. Molta delicatezza in “Zarbo di mare”, con le carezze di contrabbasso, il tocco morbido alla chitarra, e le percussioni ovattate. Ma l'album è aperto con due tracce dai tempi dispari: “Baia” è in 7/8, “Aymara” in 5/4. Qui, chitarra e voce si seguono spesso all'unisono. Perché queste canzoni sono nate strumentali, e notando l'approccio melodico, si è pensato di arricchirle con le voci umane.
In francese è il canto di “Partons”, dove il chitarrista si lancia in un assolo elettrico “santanesco”, su ritmo scandito dallo shaker. “Surat” entra in atmosfere mediorientali, salvo poi trasformarsi in una parentesi elettronica drum and bass, inseguita da giochi del violino. Anche “Bebê” si regge su un 7/8, a quanto pare i tempi dispari sono d'ispirazione. È un pezzo assai agitato, dove voce e chitarra si rincorrono su melodie complesse e rapide, mentre il basso è pulsante assieme alla batteria. La vivacità continua in “Sal”, dove la chitarra è raggiunta dal pianoforte e dal sax soprano, su scale ebraiche (a tratti viene in mente la klezmer), mentre la parte ritmica è arricchita da battiti di mano.
“Fuzz” sposta le coordinate su un'energica rock fusion, mentre “Manaus” chiude l'album con delicatezza, riscaldati dalle note di contrabbasso in evidenza. “Voices” è un album ricco e variegato, pur mantenendo una coerenza stilistica e un desiderio utopico di armonia di fondo. (Gilberto Ongaro)