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MARTIN KOHLSTEDT  "Feld"
   (2023 )

Il compositore tedesco Martin Kohlstedt è pronto a portarci via dentro nuove emozioni. I brani del suo nuovo lavoro, “Feld”, si muovono come un corpo unico, è tutto collegato, pur nella varietà timbrica. I suoi pattern minimali si colorano di volta in volta in maniera variopinta, mescolando assieme suoni elettronici ed acustici, che convivono in simbiosi.

Tutte le dodici tracce hanno titoli di tre lettere in stampatello: “LUV”, “DIN”, “ELZ” e così via. Lasciando l'enigma irrisolto dei titoli, addentrandosi nelle tracce possiamo sentire i bassi sintetici e pulsanti di “DIN”, alternarsi con uno dei suoni ricorrenti dell'album, il piano elettrico che io chiamo sempre “caramellato”, lasciato da solo, in un contesto ansiogeno. Nel brano d'apertura “LUV” invece, il piano caramellato interagiva con l'elettronica, con approccio zimmeriano.

Sentimenti v a p o r emergono da “ELZ”, con i suoi suoni di cristallo, su drum da trip hop, per poi correre nel viaggio stellare tra gli arpeggi di “MOD” e rimanere estasiati dai cinguettii di tastiera che in “PIX” gironzolano tra le orecchie, da sinistra a destra. Il pianoforte compare tenebroso in “SJO”, affiancato da cori femminili sullo sfondo, per una musica a tinte nere, nonostante la “lentezza”. L'agitazione c'è ma è latente, sia qui che nella più malinconica “NOR”, dove i pattern hanno un retrogusto à la Vangelis.

Prerogativa del compositore è far sentire anche le meccaniche degli strumenti, come i martelletti del pianoforte, i suoni dell'ambiente di registrazione. Accanto poi a gelidi synth bass come in “DIA”, i classici di tradizione tedesca, dai Kraftwerk in avanti. Il brano in effetti si manifesta come il più “industrial”, tra molte virgolette, nel contesto più etereo di Martin.

Apice di “Feld”, a mio personale avviso, è “OHM”, perché qui convivono tutti gli elementi contrastanti, in una felice sintesi produttiva. Una base drum fatta di rumori (sembrano attrezzi di ferro che vanno a tempo); arpeggiatori elettronici che viaggiano tridimensionali, pianoforte e viola nel comparto acustico, assieme ad un irriconoscibile sax baritono, e sopra il loop armonico modale, nella seconda parte si installa gradualmente un inciso melodico ripetitivo ma trascinante. Commovente.

E poi via, nelle tracce conclusive, tra suoni “fucsia” un po' retrò, accanto ad altri modernissimi e levigati, e l'arpa di “LIN” suonata dal musicista Melis Çom in maniera complice con l'idea base di Kohlstedt: è un'arpa reale, ma ricalca gli stilemi di quello che si farebbe elettronicamente, creando un corto circuito di impressioni. Ed infine l'incedere regolare e mesto del pianoforte di “MYN”, che conclude un lavoro assolutamente affascinante che ho sporcato con queste inutili descrizioni soggettive, che altro non fanno che influenzare il vostro ascolto.

Davvero, ho meditato tre giorni prima di scrivere, perché l'esperienza qui è così coinvolgente che non so verbalizzarla, senza entrare nel noiosamente tecnico, che a voi penso interessi relativamente poco. La grandezza di Kohlstedt sta nella semplicità, regola base del minimalismo già percorso da tanti altri prima di lui, e però l'esito di “Feld” è magnetico. Provare per credere. (Gilberto Ongaro)