APERTURE "Stanze"
(2023 )
Lo spoken word si diffonde sempre più. Si ha voglia di racconti e di poesie, prestando attenzione alle parole anziché farsi distrarre da una melodia. Il duo di fratelli italo-tedeschi Emanuele and Elisabetta Porcinai, denominatisi Aperture, ci porta nelle proprie “Stanze”, album di nove brani sussurrati, con parole che emergono dall'introspezione.
Uscito per Stray Signals (nomen omen dell'etichetta), l'LP contiene strani segnali, dal punto di vista musicale. Le parole sono immerse in un ambiente senza tempo né ritmo, circondate da rumori quotidiani, metallici e legnosi come quelli in “Sogno”, affiancati dalla chitarra che esegue poche note ben scelte, come l'unica nota ripetuta in “Paper cities”, o le coppie di note suonate ne “Le parole e i gesti”, dove la prima è corta, mentre la seconda viene trattenuta finché si smorza naturalmente.
Il pianoforte esegue delle note che ricordano alla lontana la “Tubular bells” di Mike Oldfield, all'interno di “Siren”. Come detto, il duo è italiano ma sta a Berlino. La sorella, Elisabetta Porcinai, recita in inglese per la maggior parte del tempo, e sovraincide dei cori inquietanti in “Everyone”, dal testo altrettanto disturbante: “Everyone was in that room, tasting the darkness (…) as I tried to find my way back to cities with no name (…) everyone was in that room, motionless (…) out of breath, I looked for your gaze in the crowd”.
Il fratello Emanuele invece si mantiene sull'italiano, nei suoi turni di recita. E tra le parole, così dilatate nello spazio delle canzoni, emerge un piano generale, un concept diffuso. Ne “Le parole e i gesti” dice: “Finché non riesci a trattenere il respiro, aderisci alla carne, oscilla in equilibrio, gravità senza entrare in contatto, avanza guardando indietro”. Mentre nella conclusiva “Sveva”, afferma: “C'è sempre una linea, un filo che passa intorno ai nostri arti, al nostro mento, alle nostre coscienze, che ci porta avanti guardando indietro, affusolati nei rami, nei nostri giardini”. Ritorna il concetto di proseguire avanti guardando indietro, comunicare tra futuro e passato.
Pianoforte, flauto e rumori accompagnano “Read me a poem”, dove Elisabetta ribadisce la sensualità delle parole, del logos, all'interno dell'amore: “I love you when you play so smoothly. I love you when you dance to the sound of my words. Please read me your favorite poem, repeat it one more time”. Nella titletrack, tra pad (tappeti sonori) e rumori che sembrano un po' della tastiera del computer, un po' della cucina, si sintetizza una riflessione allusiva ma che resta irrisolta: “Tutti lo siamo, alla ricerca di padri, di forza tenera, sicura e paziente. Porta al fronte, e desta tristezza costante, nel vuoto. Cucini per me un pasto ancora crudo, che io divoro e adoro. Deglutisco in fretta, e penso che adoro la tua cecità”.
“Weightless” continua nell'ambientazione casalinga, tra stoviglie e porte di credenze che si aprono. O almeno così percepisco. Le ambientazioni sono perturbanti, perché presentano suoni familiari in un contesto non familiare, non riconoscibile. La batteria di Andrea Belfi condisce qua e là la tessitura dei rumori, senza creare mai un ritmo con groove; viene volontariamente mantenuto l'approccio minimalista.
Non è un ascolto facile... per fortuna! Basta mangiare sempre omogeneizzati! Le sperimentazioni minimal affiancate alle riflessioni pronunciate sottovoce, aprono cuore e cervello insieme. Una terapia! Sonolaterapiasonolaterapiasonolaterapiasonolaterapia... (cit.). (Gilberto Ongaro)