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KHA!  "Ghoulish sex tape"
   (2023 )

Intro: i Kha! sono un trio milanese nato nel 2019, all’esordio lungo per Grandine Records con le otto tracce di “Ghoulish sex tape”.

Trama: un assalto barbarico di venticinque minuti, senza requie né pietà.

Fragoroso, nevrotico, costruito su brani sbriciolati sotto una spessa coltre di noise discretamente cerebrale.

Elaborato, psicotico, indisciplinato, qualcosa tra Splatterpink e Three Second Kiss, o anche no.

La voce – sempre filtrata – è un latrato sinistro e sguaiato che trita ogni pavido accenno di melodia; il contorno è una sarabanda inacidita a base di elettricità fastidiosa, scatti isterici, schegge metalliche, strati di dissonanze a sommergere il fu rock-as-we-know-it.

Rock ben più che tagliente: sfigurato, si direbbe, talmente post da scomparire dietro il velo nero di un’attitudine urgente incline all’hardcore, o anche no.

Più al post-hardcore, forse, almeno a giudicare da quanto il cadavere sia spolpato: l’insieme è trucido e aggressivo, gli incastri metronomici e la ricerca ininterrotta della disarmonia collocano il misfatto dalle parti di Steve Albini, le cadenze impazzite della batteria e i tempi impossibili dettati dalla chitarra avvicinano alle contorsioni off degli Arab on Radar.

L’impressione, tuttavia, è che a prevalere in cotanto controllato bailamme sia a volte più l’idea di ferocia che la ferocia in sé. Come se a dominare la scena fosse quell’intento – piuttosto esplicito, affatto simulato – del trarre giovamento dal non piacere agli altri, come in fondo ci si aspetta che sia. La reale indole – altro che hardcore, post-hardcore, post-punk – parrebbe orientata al math-rock, o anche no.

Bel rebus: sì, perché dell’hardcore non possiede la torrenziale irruenza né tantomeno la veste grezza e l’attitudine frontale. Peraltro: è noise, si diceva, ma ragionato. Mancano chorus anthemici, rabbia istintiva e cattiveria; abbondano invece un certo beffardo sarcasmo ed uno stile di canto memore più di John Lydon che di Ian MacKaye.

Già: P.I.L. e Fugazi a braccetto – che impressione! Un sogno meraviglioso - come nell’opener “Wise souls”, negli stop-and-go maniacali di “My only love”, nelle scariche abrasive di “Breadcrumbs”. Oltre il rumore c’è di più, ma è pia illusione: è vero, qualche brandello di malcelata armonia fa capolino nel chorus di “Robert”, sebbene sia poca e timida cosa al cospetto della frustata à la Jesus Lizard di “Travelers” o dell’ingorgo congesto di “My hands”.

Outro: a questo punto, subentra l’apnea. La musica è finita, l’aria scarseggia, il clima è soffocante, il martirio sonoro volge al termine. It’s the end, cari miei: “Piles of warm feelings” prende in giro a partire dal titolo: raggelante nella sua brutalità compressa, promette bene, nega tutto nello spazio di pochi secondi, conclude in bilico sull’ennesimo abisso. Terrore in divenire. Fine di un incubo, o anche no. (Manuel Maverna)