STARVING PETS "No shake, no feels"
(2023 )
Lo confesso: sui primi ventotto secondi dell’opener “Bag full of leaves”, mi sono messo a cantare “Nine million rainy days” dei miei amati Jesus & Mary Chain. Ci stava eccome, la cadenza è simile, il mood anche, il basso pure: fantastico come inizio, non potevo chiedere di meglio.
Poi entra la voce, e va benissimo anche quella, perché è morbida, ma distante. Pigra, indolente, quasi sonnacchiosa (Jim ne sarebbe fiero). In sottofondo, iniziano a farsi strada strati di feedback che accolgo a braccia spalancate come fossero vecchi amici a cena. Più o meno a metà del brano, che procede catatonico sul suo giro minimal di pochi accordi in maggiore (William ne sarebbe fiero), entra quasi a sorpresa un synth che si prende la scena – ma proprio tutta – crescendo in una dilatazione ambient, risolta infine in una spirale noisy.
Sono trascorsi sei minuti e mezzo, e siamo solo alla prima traccia di “No shake, no feels”, debutto solista su label Dead End Street Records/Marsiglia Records/Coypu Records per Andrea Sassano, artista torinese non di primo pelo già nei Farmer Sea, band che merita una menzione se non altro per “A safe place”, gran bell’album datato 2012, indie for the masses ben scritto e altrettanto degnamente prodotto. Il progetto va sotto il moniker di Starving Pets, di fatto un lavoro solista di Andrea, che se la scrive, se la canta e se la suona con la sola collaborazione esterna di Francesco Alloa alla batteria.
Sei tracce per ventisei minuti sempre allettanti, soprattutto perché non è mai prevedibile dove andrà a planare il prossimo pezzo; disparati i riferimenti, miscelati con sapienza ed equilibrio grazie ad arrangiamenti sobri ed essenziali. Un’inquieta “Nothing left” rimanda il climax, che non arriva mai, esitando attendista senza realmente deflagrare; “Indoors” caracolla sorniona su una ciondolante melodia acustica; “After you’re gone” è una pennellata melanconica vagamente memore dei Wilco; il garbato ingorgo di “We can sleep” finge di lievitare, ma collassa nel nulla senza un centro di gravità permanente; in chiusura, “Nothing stays” si infila in una fosca nebulosa gentilmente elettrica à la Girls in Hawaii, con voce filtrata e atmosfera laid-back a tessere un’armonia tenue e sfuggente, dissolta in due minuti di feedback carezzevole.
E’ l’inatteso epilogo di un disco ammirevole sotto ogni aspetto, dotato di un suo peculiare fascino e privo di punti deboli; non brillerà magari per originalità, ma è così ben fatto da rendere la cosa del tutto trascurabile. (Manuel Maverna)