DAVID HOPE "...And the sea"
(2022 )
Non è che voglia necessariamente farne una questione di età anagrafica, però forse anche sì.
Mettiamo subito le cose in chiaro: se avete tra i venti e i trent’anni, smettete pure di leggere queste righe e tornate sereni ad ascoltare gli Arctic Monkeys, gli Alt-J o i Death Cab For Cutie. Va benissimo, amici come prima e tutto tempo guadagnato.
Se siete tra i trenta e i quaranta, vi avviso: dipende. Nel senso: appassionati di metal, shoegaze, elettronica, noise, psych, post-rock? Raggiungete pure quelli di cui sopra e tenetevi ben stretti gli album dei Tool, dei Mogwai, dei Flaming Lips, pace e amen. Invece: siete gente semplice, senza troppe tentazioni avant per la testa ed apprezzate magari la musica dei vostri oramai attempati genitori? Proseguite, chissà che questo disco vi possa riservare qualche sorpresa.
Siete oltre la quarantina e avete smesso con la roba cervellotica della quale vi vantavate negli anni ruggenti che furono? Non c’è nulla di male, io continuo anche adesso, ma a volte è per dovere più che per piacere, perché bisogna stare al passo coi Dry Cleaning o con gli Squid, tenersi aggiornati, progredire.
Avete superato il mezzo del cammin, (non) per puro caso siete anche lettori del Buscadero e cultori dell’immarcescibile genere-non-genere definito Americana? Allora siete nel posto giusto al momento giusto.
Ladies & Gentlemen, su etichetta TOURBOmusic ecco a voi tutta la raccolta, semplice, viscerale meraviglia di “…and the sea”, quarantacinque minuti che definire d’antan sarebbe riduttivo, un prodigio di musica tanto desueta quanto perfetta nella sua dolcezza, una carezza in undici canzoni troppo belle per essere vere. Autore della magia e della coccola: il signor David Hope, cantautore irlandese al quinto album di una carriera costruita su un songwriting garbato, elegante, morbido come ovatta, qui supportato da Steffi Hess, Kealan Kenny, Darragh Keary, Chris McCarthy e Christian Best.
In un crooning caldo e pastoso, intenso ed emozionale, mixato sempre in primo piano ad accrescerne l’impatto e la confidenzialità, David dispensa piccole gemme come fossero petali di rosa, e poco importa chi o cosa ci ricordi, perché lo fa con una naturalezza talmente esagerata da rendere preziosa anche una ballata da quattro accordi in punta di chitarra. L’album – va da sé - è enorme, una benedizione per nostalgici e cuori selvaggi, cowboy acciaccati e anime solitarie, tra echi bucolici (“Lovers leap (coast of Clare)”), lentacci da mattonella (“No one to listen”) e divagazioni ad un centimetro dal country.
Ombre, numi tutelari e riferimenti totemici affollano ogni singolo brano come presenze invisibili: c’è il Boss, sia nell’opener “World stopped turning” che nella title-track piazzata lì subito dopo a segnare il territorio; c’è John Mellencamp nel mid-tempo da FM di “Burning question”, Tracy Byrd nel passo da line-dance di “Whiskey mornings”, Chris Rea nel blues in minore di “Death and taxes”. E Ryan Bingham nell’indolente aria sudista di “Find your way home”, Van Morrison nel ballabile da piano-bar di “Moon and back”, Mark Knopfler nell’avvolgente slow di “Bad year” in chiusura. C’è tutto quello di cui abbiamo bisogno, raggiunta una certa età.
“L’ho già ascoltato due volte di fila”, ho scritto al mio direttore.
“Io sette”, mi ha risposto.
Siamo entrambi oltre i cinquanta, non faccio per dire. (Manuel Maverna)