GIUDITTA "Giuditta"
(2022 )
I Giuditta sono un quartetto bresciano che si prende maledettamente sul serio. Magari sosterranno il contrario per eccesso di modestia, ma è innegabile che facciano la loro cosa con estrema cura e con una passionalità intrisa di sincera urgenza.
Musicisti non di primo pelo provenienti da varie esperienze, sono Francesca Cordone (voce, testi e melodie), Francesco Regazzoli (chitarra), Ludovico Di Meco (basso e arrangiamenti) e Jury Suardi (batteria), insieme dal 2020 e autori di questo intrigante ep di esordio. Appetitoso e stuzzicante come un happy hour a base di tapas, raccoglie cinque brani affidati alla produzione dello stesso Ludovico e di Luca Tacconi, col mastering di Giovanni Versari e la supervisione di Andrea Cegna.
I brani suonano storti, accattivanti, poco prevedibili sia negli sviluppi che nelle contorsioni dei testi; venti minuti nervosetti e pungenti giocano con un immaginario che mischia visioni mistiche e fosca realtà, col suo fardello di relazionalità disturbata sullo sfondo.
Provvidamente disallineato nei modi e negli intenti, sfodera una scrittura tesa cui il canto espressionista di Francesca dà risalto, accrescendone l’impatto: segna subito il passo la sberla à la Disciplinatha di “Favola vera” – liberamente tratta da “L’uomo nuovo” del controverso Fidia Gambetti – che apre aggressiva con la sua amara invettiva socio-generazionale a marcare il territorio; accresce il pathos la cadenza martellante di “Caro mio Giuda”, spinosa come la corona di Nostro Signore, qui immortalato a dialogare col suo più infido carnefice in una icastica pièce surreale, sottolineata da una vocalità malevola e teatrale; chiude il trittico “Pece”, serrata e squadrata, irrequieta e profonda, scossa di continuo da attese e ripartenze, figlia illegittima dell’imperituro art-rock dei Litfiba di “17 re”.
All’acme della virulenza, il clima si placa nei due episodi conclusivi: la complessa ballata di “(P)orco”, aspra e incattivita alla maniera della prima Giorgieness, e la chiusura soffice di “Corri qui”, melodioso inno all’amore universale che suggella con inattesa morbidezza un lavoro ricco e sfaccettato, attraente benché indocile. (Manuel Maverna)