TO DIE ON ICE "Una specie di ferita"
(2022 )
E’ una insolita, inquietante, a suo modo affascinante forma d’arte quella esibita dal quartetto bolognese To Die On Ice nelle otto tracce di “Una specie di ferita”, esordio per Grandine Records/E’ Un Brutto Posto Dove Vivere/Non Ti Seguo Records/Weird Side. All’insegna di una musica criptica, al contempo agonizzante e suadente, nevrotica e soave, attraente e respingente, l’album offre trentuno minuti in bilico sul filo del rasoio, portati a spasso da un mood cinematografico (programmaticamente autodefinito “Lynch Core”) attraverso una selva oscura irta di trabocchetti e trappole di ogni sorta.
Alla base, sonorità che lambiscono sì oblique derive post-rock, ma scosse repentinamente da (almeno) due elementi, determinanti nel pervertire il fine ultimo dell’intero lavoro: il canto, ferale strumento usato solo in alcuni brani e piegato ad uno screamo rabbioso tra l’emo e l’hardcore (tra FBYC e Morso), e l’uso reiterato del sax di Andrea a puntellare trame che sembrano talvolta tendere ad una versione edulcorata del jazzcore zorniano, prestandosi altrove a più miti tessiture, notturne e avvolgenti.
Il clima generale rimane improntato ad una calma apparente carica di pathos, il cui climax è continuamente rimandato: belva in agguato pronta ad aggredire, ordigno sul punto di deflagrare, promessa minacciosa che tale rimane, l’album assume i connotati di una pièce morbosa, la cui ambiguità passa non solo per i titoli dei brani, ma anche e soprattutto per il sottile senso di perdizione che ne riveste lo scheletro.
Appesa a testi brevi e viscerali, un’indole psicotica si agita sottotraccia, foriera di atmosfere incombenti; non tetre, esitanti piuttosto. Fluide, pronte ad evolvere in forme aperte, quasi una versione maligna dei Calibro 35 declinata in pezzi che accennano inconclusi, suggerendo idee che restano abbozzate, prive di un vero sviluppo. Costruito su fondamenta che rispettano uno schema replicato piuttosto fedelmente, l’album rinuncia ad asperità che non siano quelle legate all’espressionismo spinto o alle liriche, prediligendo questa veste inusuale per creare pathos ed accrescerlo con maestria.
Così, “#Squirt – Una città in fiamme” esordisce con echi di Morphine ed un canto normale, ricacciato indietro dall’esplosione di urla belluine, la stessa sorte che tocca a “#Facial – Il tempo sprecato”, pigra cadenza sventrata dal parossismo vocale di Filippo, o ancora a “#Threesome – Le labbra a morsi”, pennellata carezzevole le cui progressioni visive à la Ronin vengono uccise da un folle minuto di grida laceranti. Tra le più canoniche suggestioni post dell’opener “#Fisting – come una palude” e le movenze sinuose di “#Cumshot – un efferato fatto di sangue”, col basso di Simone a disegnare sul finale una linea immaginifica, si stagliano su questa mezzora flessuosa e indecifrabile l’aria sospesa di “#Bukkake – la forma esatta delle nuvole” col canto fattosi vera melodia, e la chiusura di “#Dirty talk – mentre morivo sotto le luci al neon di una lavanderia a gettoni”, dove il drumming di Alessandro detta un ossessivo rallentamento velvetiano, inghiottito dalle figure free del sax mentre la danza prosegue mortifera verso l’epilogo.
Disco sibillino, sfuggente ed inafferrabile, vagamente lascivo ed elegantemente sporco, come un film hard diretto da David Lynch, al quale è probabile che stiano fischiando le orecchie. (Manuel Maverna)