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SORRY FOR LAUGHING  "Remember, you are an actor"
   (2022 )

Impavide ombre lunghe si muovono furtive lungo il precario crinale che separa sperimentazione - raffinata e calda, pur in veste scopertamente elitaria - e colto intimismo. Da un lato, l’abisso dell’incomprensibile; dall’altro, la chance erga omnes di godere almeno in parte di una musica lontana sì dalla comune fruibilità, eppure a suo modo accessibile, penetrabile, disponibile.

Sotto la sigla Sorry For Laughing, già utilizzata alla metà degli anni Ottanta dallo statunitense Gordon H. Whitlow come progetto solista ed ora rispolverata per l’occasione, troviamo una nutrita schiera di artisti, espressione della meglio intellighenzia del mondo della contemporanea. Discendenti in linea diretta dai seminali ensemble Mnemonists – attivi tra il 1979 ed il 1983 - e Biota - nati nel 1985 dalla progressiva dissoluzione dei Mnemonists e tuttora attivi –, lo stesso Whitlow & soci proseguono nell’opera di deciso distanziamento dalle urticanti passate asperità, nel segno di una complessità concettuale sì addomesticata, ma sempre segnata da tessiture rarefatte e appassionate.

Costruito sul filo esile di un astrattismo sfumato e docile, ravvivato dal generoso apporto di una varia strumentazione e di una stilosa verve incline a figure mai così leggibili, “Remember, You Are An Actor”, pubblicato dalla viennese Klanggalerie, raccoglie undici tracce per un’ora di musica sofisticata e morbida, un sapiente intreccio di arabeschi ipnotici che disegnano scenari dal fascino suggestivo.

Fanno parte del collettivo personaggi storici del sottobosco avant, come Martyn Bates (Eyeless in Gaza), Edward Ka-Spel (Legendary Pink Dots) e la chitarrista Janet Feder, ma anche Patrick Q. Wright (Officer!), David Zekman e Tom Katsimpalis (Biota), riuniti in quello che un tempo si sarebbe definito un supergruppo e che ora è semplicemente una piccola orchestra di ventura alle prese con materiale originale, prezioso ed elaborato.

Di rado rispettando la forma-canzone (“Mansions of rest”, tardo-pinkfloydiana), talora indulgendo a divagazioni che lambiscono minimalismo e musica concreta (“Dredging the seas”, “Last day awake”), prediligendo talvolta recitativi (i tredici minuti di “Mad shadows (you are an actor)”, l’opener “Place”) al canto, i brani sono arricchiti da testi introspettivi e da un’architettura avulsa dal canone strofa/ritornello.

Sono composizioni eteree e sfuggenti, nemmeno circolari: aperte piuttosto, libere di vagare in una nube purpurea dal nulla al nulla, nascondendo o rivelando a seconda dell’estro del momento, narrando storie che sono estratti di stati d’animo, pezzi di vite mischiate, racconti frammentari di paure e speranze.

Viola e violino, organo e hurdy-gurdy, kaen e banjo, effettistica assortita e rumori ambientali, fiati ed elettricità sparsa forniscono il substrato per un’opera intensa, sfaccettata, a tratti toccante, altrove capace di rapire sulle ali di trame impalpabili; tra echi di Lucrecia Dalt e Pauline Anna Strom, David Sylvian e These New Puritans, Dead Can Dance e Black Tape For A Blue Girl, spiccano in particolare gli otto minuti estatici di “Ravens flying” - a un passo da David Tibet –, la chiusura chiesastica à la This Mortal Coil di “Twist ending – shelf isolation”, ma soprattutto la falsa folk-ballad di “Milk wood (Polly’s song)”, dove il contenuto narrativo e la metrica del testo, anzichè piegare dalle parti di un bucolicesimo di maniera, finiscono ingabbiati in un’amabile aria celtica à la Loreena McKennitt, quasi fossero demoni intrappolati in un corpo angelico.

E’ forse l’emblema ed il vertice assoluto di un album che trova in una spontanea alterità - mai affettata nè ostentata - la sua ricchezza più profonda. (Manuel Maverna)