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URBIS NULLA  "Urbis Nulla"
   (2022 )

Nessuna città. Così si chiama il duo palermitano, in latino Urbis Nulla, che esordisce con l'omonimo album. Si tratta di elettronica modulare, cioè dei loop ripetuti con una programmatica monotonia, in un approccio post rock. Non a caso, l'etichetta che fa uscire questo lavoro è la Seahorse Records, che già ci ha fatto conoscere simili atmosfere meste introspettive, con lo shoegaze dei Sofsky.

Ma “Urbis Nulla” è una realtà più mesta delle dolcezze dei Sofsky. Siamo di fronte a sette tracce che comunicano solitudine e isolamento, sia con i suoni, che esplicitamente con le parole, recitate come negli Offlaga Disco Pax. Ma a differenza di questi ultimi, non ci sono corse logorroiche. Anzi, le frasi sono estremamente dilatate, quasi da farti dimenticare cosa è stato detto in precedenza, all'arrivo del nuovo pezzo di frase.

Come vicino di casa, ho un pastore tedesco che non fa altro che abbaiare ogni volta che cerco di ascoltare un disco. Appena inizio questo album, sento nuovamente la cagnara e mi innervosisco di nuovo, ma quando tolgo le cuffie scopro che non c'è nessun cane. I cani sono nel brano!!! Nella prima traccia, che è la titletrack ed è strumentale, siamo accolti da cani abbaianti in maniera aggressiva, che fanno distrarre dall'avviarsi dei suoni sintetici dilatati. Nel vagare casuale (senza nesso causale), ad un certo punto sentiamo un vociare di persone e uno sbattere di posate: gente al ristorante. I cani dopo un po' vengono anche messi in reverse, ricordando un po' i “Dogs” dei Pink Floyd. Il rumore di un motorino chiude la traccia ambientale, che ci fa sentire soli.

Su “Note a margine”, la chitarra suona note sospese sopra il loop, mentre iniziamo a sentire i primi pensieri: “Le foto nei quadri di casa tua, raccontano una storia diversa dalla mia (…) mantra ripetuti cedono il posto ad un presente confuso e dissociato. Un intruso, ecco quello che sei”. La sensazione di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, è una costante del disco. Un cedere alla rassegnazione che non tollera nessuna frase motivazionale, di quelle da life coach. Infatti, in “A cento metri di distanza”, si racconta: “Leggevo a malapena in un manifesto abusivo (...) 'Se riesci a correggere quel che hai rotto in passato, troverai la chiave di volta per il tuo futuro radioso' (...) quell'agghiacciante consapevolezza di vivere una vita fatta di quotidiani universi da accettare in un pacato, rassegnato silenzio. Un paio di giorni dopo, per sentirmi meglio ho capito quel che dovevo fare, tornare a quel muro e strappare quel manifesto abusivo”.

Un altro strumentale dal titolo significativo, “Il disordine accogliente”, presenta una chitarra acustica che ci riscalda un po', a fianco dei gelidi suoni elettronici. “Agata” inizia a parlare di “luce soffusa”, ma soffuse sono anche le parole, anzi disperse. “Oh Agata, i tuoi occhi così piccoli e un immenso mondo da scoprire”. Sembrerebbe parlare ad una figlia, ancora inconsapevole dell'amarezza della realtà, ma niente è sicuro. Sono tutte impressioni, riversate in parole e non spiegate. Come le frasi di “Topi e chiodi”, tra loro dissociate: “Topi e chiodi pungono i piedi nudi, quasi allo stesso modo. Parole anarcoidi, a tratti nichiliste e nauseabonde (…) Il mio infinito stupore si soffermò da sempre sulla tua ciocca di capelli fuori posto nelle spalle”.

Se ti senti solo, l'ultima traccia si chiama “Amici giusti”, che sembra una disperata ricerca o di compagnia, o di contatti utili: “Alla ricerca della compagnia degli amici giusti, pochi isolati ancora, appare finalmente il cancello di ferro battuto (…) il quadro di citofoni (…) il fascino assurdo e folle di essere un'altra persona (…) mi serve un filtro di ricambio”. Questa sconclusionatezza può infastidire, potrebbe venir voglia di dirgli: “Arripìgliate!”. Oppure si può empatizzare, con un disagio esistenziale profondo, se ti appartiene. (Gilberto Ongaro)