CIGNO "Morte e pianto rituale"
(2022 )
Un mio conoscente esperto di politica sostiene da tempo che estrema sinistra ed estrema destra siano in realtà - almeno relativamente a certi aspetti - molto più vicine di quanto si pensi, fino quasi a sovrapporsi.
Un po’ come Čukotka e Alaska, con il solo stretto di Bering a separare i mondi lontanissimi di Russia e Stati Uniti, da quelle parti - in verità - egualmente gelidi e desolati.
Un po’ come in musica – sostengo io – il folk e il gotico, dove folk non è Woody Guthrie nè Josh Ritter, bensì David Eugene Edwards o Cesare Basile, per capirci.
Folk come musica popolare latu sensu; tradizionale sì, ma nel suo lato più oscuro, misterico, haunting. Quello ritualistico, fatto di stregonerie, superstizione, malefìci. Tenebra profonda, tanto buia da lambire il versante opposto: di là dal valico c’è quello che ai miei tempi chiamavamo dark e che se ti concentri fa ancora paura, ora come allora.
Tre anni fa ebbi la fortuna di recensire un album straordinario in tal senso: era il debutto solista del parmigiano Andrea Lesignoli sotto lo pseudonimo di LuZi, un calderon de la stria nel quale confluivano elementi estrapolati da contesti così lontani, così vicini.
Black metal il mio folk, per dirla coi Bachi da Pietra. Affascinava, spaventava.
Bene: in questo fosco milieu che trasuda sentori di primitivismo maligno ed ancestrale impurità striscia minaccioso e infido come serpe “Morte e pianto rituale”, nove tracce per trentasei minuti di musica opprimente, soffocante, mai accondiscendente nè ammiccante. E’ il nuovo lavoro del musicista romano Diego Cignitti, in arte Cigno, voce isolata e antagonista chiusa in un angolo da cui – immobile – colpisce. Stigmatizza e ferisce, teorizza e demolisce, tratteggiando il profilo incerto del bestiario decadente che il genere umano è.
Un piccolo mondo senza tempo, corrotto e sordido, imperfetto per natura. Popolare, perché riguarda tutti e tutti coinvolge. Con il popolare che sta racchiuso nei testi, nelle percussioni incalzanti, nel tribalismo insistito, nelle progressioni armoniche mai lineari nè accomodanti. Nella musica in sè, di folk as we know it ce n’è poco o niente. Eppure lo è.
Aperto dall’asfissiante sabba à la Capossela di “Colobraro” e chiuso dall’inquieto strumentale per chitarra acustica, vocalizzi e rimbombi di “Kabul”, l’album offre la sua peculiare reinterpretazione del canone in una sequenza martellante di svolte e contorsioni, dagli echi avant di “Protestanti” e “La fine è l’acqua” – tra Iosonouncane e l’ultimo Righini – allo sferragliare di catene che segna la cadenza infernale di “Mare nero”; dalla tammurriata à la Bennato (più Eugenio che Edoardo) de “La classe operaia va in paradiso” alla scheggia impazzita di “Postcapitalismo”, algido up-tempo memore - in forma e sostanza - dei primi CCCP come dei primi Disciplinatha, giù fino all’Ade de “La terra del rimorso”, quasi un accenno di taranta stravolta, mascherata, nascosta sotto liriche in latino. Mancano solo l’Inquisizione, l’abbazia de Il Nome Della Rosa e la pira preparata per il rogo ed il quadro (così vividamente boschiano) è completo.
Tra rigurgiti, borborigmi, filtri, distorsioni, sortilegi ed ogni sorta di trucchi e magheggi, va in scena uno spettacolo di arte varia che di continuo coinvolge e respinge: come in politica, in geografia, in musica il confine tra piacere e dolore, intrattenimento e riflessione, perfino tra cultura e controcultura può davvero essere labile. (Manuel Maverna)