EL KHAT "Aalbat alawi op.99"
(2022 )
Yemen. Prima di parlare di musica, è impossibile non pensare a quello che sta succedendo da anni lì. Non se ne leggono mai notizie qui, in Occidente. Perché “Je suis Charlie Hebdo, je suis Bataclan, mais je ne suis pas Yemen, je ne suis pas Siria”. Comunque, siamo qui per parlare di bellezza, di musica, e in un certo senso di psichedelia, che sgorgano anche da quella nazione.
Evocando il termine “psichedelico”, pensiamo subito alla chitarra di Gilmour, o al peyote nel deserto americano. In realtà, a questa longitudine e latitudine, dobbiamo entrare in un altro tipo di sonorità, seppur con lo stesso fine ipnotico, e anche... a un altro tipo di droga! Sì, perché El Khat, gruppo capitanato da Eyal el Wahab, prende il proprio nome per l'appunto dal khat (o qat), che è un'erba da masticare, diffusissima in Medio Oriente e soprattutto in Yemen. Dà dipendenza, e su YouTube c'è un documentario del 2000, dove si vedono diversi yemeniti con una guancia ingrossata. Ma ora basta divagare, entriamo in “Aalbat Alawi Op.99”.
Uscito per la Glitterbeat Records, l'album porta nel titolo un omaggio al cantante Fasan Alawi, e la dicitura “Op.99” serve a farsi rispettare dall'occidente colto: i compositori classici intitolano le proprie creazioni numerandole in quel modo. In El Khat, el Wahab suona quasi tutti gli strumenti, che non sono convenzionali; archi, fiati, percussioni, suoni elettrificati, ma la maggior parte sono strumenti costruiti dallo stesso el Wahab. Il reparto più affascinante è quello percussivo. Ci sono le lattine, cosa a cui tiene molto el Wahab: per lui, è vitale utilizzare ciò che le persone non usano più. “Non è immondizia”, dice. Ecco ancora una volta il dadaismo, scevro dallo humour: ciò che è inutile è bello, l'arte dev'essere inutile. Cioè in-utile, senza utile. Deve trascendere. Questo è lo spirito che sta alla base delle trasformazioni degli oggetti di scarto in strumenti musicali.
Più o meno, tutti brani sono costituiti da melodie principali trainanti, attorno alle quali i brani si strutturano. Salta all'orecchio l'utilizzo dei microtoni, quindi non siamo in grado di definire le scale che ascoltiamo “maggiori” o “minori”, perché incorrono spesso e volentieri in questi intervalli più stretti dei semitoni. In “Leilat Al Henna” possiamo sentire anche, nella seconda metà, un organo Hammond che richiama alla lontana i Doors, quindi qualcosa che riconosciamo.
Quasi sempre è presente il reparto percussioni, in maniera vivace. Fanno eccezione “Muftaha”, dove siamo soli con gli archi, e la traccia di chiusura, che è la titletrack “Albat Alawi Op.99”, dove sono presenti sì le percussioni, ma la musica è direzionata da un battito dritto e stabile, e i suoni elettrici fanno da bordone intrippante. Non mi azzardo a parlarvi delle voci, non conoscendo la lingua. Ma nel complesso, l'esperienza sonora è intrigante, poiché molto “materica”: si viene subissati da risonanze di plastica, legno e metallo, dunque si ha la sensazione di esserne avvolti. (Gilberto Ongaro)