ALESSANDRO FIORI "Mi sono perso nel bosco"
(2022 )
Voi che siete capaci fate bene a parlare di Dry Cleaning e Arca, di Wet Leg e Squid: io in una canzone di “Mi sono perso nel bosco” – nuovo album per 42Records di Alessandro Fiori, artista sulla cui carriera non aggiungo sillaba perchè do per scontato e doveroso che se ne conosca un minimo il percorso – ho percepito qualcosa che mi ha ricordato Gino Paoli, ed è stato un piacere vivissimo, oltre le memorie del tempo che ho vissuto.
Mi scuso in primis con Alessandro Fiori per avere approcciato l’opera – davvero enorme, a tratti - nel modo sbagliato: stavo pulendo l’acquario e l’ho ascoltata in cuffia intanto che svuotavo, riempivo, lavavo i filtri, raschiavo i sassi. Nei primi quattro brani - colpevolmente distratto - mi sembrava un programma radiofonico di musica leggera (si diceva così, no?), ma ora della fine avevo ben compreso l’errore, ho fatto ripartire il disco, mi sono impegnato seriamente ed è stata tutta un’altra cosa, anche perchè Alessandro Fiori un lavoro brutto o banale non lo ha mai fatto, nè da solo nè bene accompagnato.
Anzi: scrive talmente bene che mi rende digeribile perfino “Fermo accanto a te” in duetto con Levante, io che i duetti li aborro ed anzi salto solitamente alla traccia successiva. Ma i versi “non fraintendermi guarda/voglio solo stare fermo accanto a te/lì vicino all’ascella/oggi mio figlio non c’è/e tu sei ancora più bella/ senza fare l’amore come quando io/m’addormentavo sul telecomando” convincerebbero pure il più scettico detrattore del cantautorato all’italiana a dare una possibilità anche alle collaborazioni con Tizio e Caio. Per inciso, oltre a Levante sono ospiti Brunori Sas, Enrico Gabrielli, Dente, Jacopo Incani, Colapesce e la coppia di produttori/musicisti Giovanni Ferrario e Alessandro “Asso” Stefana, mica lapislazzuli.
Che poi, diciamolo, Fiori è un cantautore che viaggia a modo suo - bendato e camminando all’indietro - in una terra di nessuno, alla ricerca continua, quasi ossessiva sebbene mascherata ad arte, del dettaglio minimale, dell’accostamento ardito, di un certo ben celato piacere nel frugare esplicitamente i crudi anfratti della più comune quotidianità.
Mi ricorda indifferentemente Luigi Tenco nella malinconia abissale di “Per il tuo compleanno” o l’Umberto Palazzo dell’ultimo biennio, quello – per intenderci - de “L’Eden dei lunatici” e del revival patinato (svolta geniale, sia detto per inciso) nell’addio rassegnato di “Buonanotte amore”, Lucio Battisti nel requiem sui generis de “L’appuntamento”, pezzo che in mano ad altri sarebbe risultato straziante, mentre in mano a Fiori diventa chissà cosa, o proprio Gino Paoli – del quale ho già detto – nella dolce afflizione di “Una sera”, morbida bedtime story per pianoforte ed archi.
Dopo la seconda passata – e senza avere letto la cartella stampa – mi ero fatto un’idea, del tipo: è un disco a tema su un rapporto di coppia crollato, con il suo corollario di rimpianti, ricordi, pentimenti assortiti e tempo perso da recuperare, tra mogli, amanti, figli, vecchi amici, luoghi dell’infanzia. Come il racconto di una vita intera andata un po’ a farsi benedire, dal principio alla fine. Dopo la terza passata ho invece capito – con l’ausilio della cartella stampa – che in realtà ogni canzone fa a sè: è come se fossero solo alcuni dei tanti cocci sparsi in giro dopo un’esplosione. Frammenti universali.
Tra suggestioni d’antan e cenni insistiti di una scrittura che non procede mai – nemmeno lei – in modo del tutto lineare, poggiata su melodie ampie, un canto apparentemente conciliante ed armonie talvolta insidiose, vanno in scena il valzer bislacco di “Stella cadente”, la surreale – per quanto paradossalmente realistica - piéce mortifera di “Pigi pigi” (autore Luca Caserta), la desolazione dimessa, immaginifica ed illusoria di “Estate”, la chiusura di “Troppo silenzio”, stranita aria folk con strofa nel paterno dialetto sardo e ritornello – chiamiamolo così, ma è riduttivo – che stende con nonchalance un trattatello di filosofia nel giro di qualche battuta.
E’ l’atto conclusivo di un disco che suona intenso prima ancora che bello: è denso e corposo, a tal punto intriso di pensieri & parole e profonda ricchezza di spirito da far quasi passare in secondo piano il fatto che sia anche piacevole lasciarselo scorrere addosso. Questo è da sempre il mondo di Alessando Fiori, popolato da figure che somigliano a noi tutti, un microcosmo vicino e lontano, nel quale – come canta Niccolò Contessa in “Wes Anderson” – i cattivi non sono cattivi davvero/e i nemici non sono nemici davvero/ma anche i buoni non sono buoni davvero/proprio come me e te/proprio come me e te. (Manuel Maverna)