PAINTING "Painting is dead"
(2022 )
In una bolla pronta a svanire con la stessa rapidità con la quale è apparsa – ma bellissima, oh sì – abitano tutte le contorsioni dell’art-rock indefinibile dei Painting, trio berlinese al debutto per Antime Records con le cinque lunghe tracce di “Painting is dead”.
Parlare di debutto è improprio: i tre sono Theresa Stroetges e Christian Hohenbild – lei polistrumentista, lui batterista, ora anche responsabile della parte elettronica, entrambi già nei Soft Grid – insieme a Sophia Trollmann, sassofonista collaboratrice della Stroetges durante la parentesi Golden Diskò Ship.
Trentasette minuti di musica sfuggente – non perché impalpabile: sovraccarica, invece – tracciano un flusso continuo ed ininterrotto che impasta dinamiche e armonie per il tramite di sonorità cesellate fino alla maniacalità, un pastiche complesso e variegato in cui nulla avviene per caso ed ogni improvvisa svolta cela in realtà un intarsio calibrato ad arte per produrre un effetto di coinvolgimento quasi mantrico.
Fedeli alla convulsa inafferrabilità – opulenta, densa, strabordante, traboccante di creatività ed urgenza – che ne aveva caratterizzato le precedenti evoluzioni, intrecciate a filo triplo con computer-art, visual-art e sperimentazione multidisciplinare, le composizioni di “Painting is dead” travalicano i confini della forma-canzone offrendosi ad una fruizione ben più ampia, avvolte su sé stesse in un milieu ubriacante.
Le tre linee vocali intrecciate nell’opener “Symmetrical pattern” disegnano scenari al contempo suadenti ed inquieti, scossi da imprevedibili divagazioni della ritmica e dal pulsare incalzante del basso; variazioni repentine prontamente ingoiate dalla prossima impennata iniettano dosi venefiche di una sottile nevrosi nei sette minuti di “Maybe it’s like riding in a little jeep”; accenni di autotune e di disco anni Ottanta contrappuntata dal sax percorrono la strisciante, infida aria retrò di “All my eggs go down the drain”.
Tutto è paradossalmente sovraesposto eppure misurato nei dettagli, frutto di una scrittura stratificata sublimata negli undici minuti di “I’ll be a shadow and a cloud”, resi memorabili dal sovrapporsi di suggestioni prog, di accelerazioni metronomiche tipicamente kraut e di tessiture vocali che li portano a planare in zona Blonde Redhead nella trasognata melodia circolare del finale. E’ il preludio alla chiusura tesa e affilata di “Who are the pretty new ducks in the pond”, strapazzata da derive free e spenta in un marasma di vocalizzi parossistici che trafiggono come stilettate il climax acido di una cadenza psicotica esaltata dall’insistita frenesia del drumming.
Un istante dopo la bolla esplode, lasciandosi dietro un silenzio che silenzio non è.
E’ forse l’ennesimo gioco di prestigio, l’ultimo numero di illusionismo prima della dissoluzione. (Manuel Maverna)