THE POISON ARROWS "War regards"
(2022 )
Questo disco rischia di essere uno spartiacque, suo malgrado.
Una linea tracciata tra il prima e il poi, un poi acconciato in guisa di fitto mistero senza apparente soluzione.
Pronto e impacchettato per l’uscita a febbraio 2020, “War regards” – quarto album di The Poison Arrows, trio di Chicago - venne congelato ai primi segnali della pandemia che iniziava a soffiare sul mondo intero. La pubblicazione venne bloccata e rimandata a data da destinarsi, in attesa di tempi migliori e della possibilità di presentarlo come nelle originarie intenzioni.
La data da destinarsi – tragica ironia della sorte – è stata venerdì 25 febbraio, il giorno dopo la nuova tragedia che si è abbattuta su tutti noi.
“War regards” esce in un clima quasi irreale che ci lascia tutti a bocca aperta e col fiato sospeso, increduli ad interrogarci sul domani.
Esce in un frangente nel quale anche la voglia di tornare a ridere mostrando i denti senza più la mascherina sta cedendo il passo ad una sorda inquietudine, un battito martellante in fondo al cranio a ricordare urbi et orbi che probabilmente Hobbes aveva ragione.
Esce con la decisione della band di devolvere un terzo dei proventi derivanti dalla vendita online del disco alla Croce Rossa ucraina, per contribuire nel suo piccolo a tendere una mano come possibile.
Esce col suo oneroso fardello di musica spinosa, buia, spigolosa e urticante.
Esce col suo titolo così tragicamente adatto alla situazione, eppure nato per sbaglio: era “Warm regards” in una mail indirizzata al cantante e chitarrista Justin Sinkovich, poi un errore di battitura ha fatto il resto, ironia della sorte e segno dei tempi, sinistro presagio che non sapeva di esserlo.
Esce con la sua copertina lapidaria – in ogni senso – ma soprattutto coi suoi testi intrisi di un cupo, amaro pessimismo mai così adatto a descrivere ex ante il pozzo nel quale temiamo di guardare.
Tra Shellac, June of ’44 e Fugazi, vanno in scena quarantadue minuti di accordi secchi e tesi, agonizzanti nel loro incedere strozzato e zoppicante; nove tracce nervose che procedono a scatti seguendo le traiettorie a zigzag di un math-rock singhiozzante e ruvido.
Nessuna concessione al piacere, tutto è ritmo e dolore, aggrappato alle dinamiche tra clangori metallici e oasi di frastuono convulso, assecondato dal canto parlato di Sinkovich e dal drumming incalzante di Adam Reach, abile a guidare l’incedere di queste composizioni sghembe e sofferenti lungo binari mai paralleli.
E’ una musica boccheggiante e opprimente che calza come un guanto a questi giorni grevi e soffocanti; una stordente alchimia di frequenze incupite, quelle di “Shallow grave”, introdotta da una caracollante figura del basso di Patrick Morris (già nei Don Caballero), o di “We are collateral”, ingorgo ubriacante strapazzato dal cameo di Sterling Hayes, rapper di Chicago che inietta la sua dose di veleno, quasi uno Eugene Robinson virato hip-hop.
I reiterati stop-and-go di “Seek harbor” stritolano il timido accenno di melodia suggerito dall’inciso, il medesimo copione replicato nel vorticoso bailamme di “Shattered general”, placato solo dalla falsa variazione nel finale. In coda riecheggia funerea, spettrale e incombente la cadenza mortifera di “Altered medication”, sette minuti di fosco rallentamento condotto a passo pesante verso le grida parossistiche che ne straziano l’epilogo, come fosse il solo possibile compimento.
Chissà, magari Justin, Patrick e Adam ci hanno pensato a rimandare ancora l’uscita, ma bisogna pur cominciare a rinascere. E stavolta lo spettacolo deve continuare, con le regine, i suoi fanti e i suoi re. Sperando che davvero la morte vada via, scaramanzia o no. (Manuel Maverna)