DONALD FAGEN "The nightfly"
(1982 )
Mentre fa parlare di sé il "Live From The Beacon Theatre", dove lo ha proposto dal vivo nel 2019 con la consueta maestria in un amarcord piuttosto filologico con la Steely Dan Band, e quindi senza aggiungere dettagli a qualcosa che è nato già perfetto, occorre tornare a celebrare a ormai 40 anni suonati di distanza il capolavoro solista di Donald Fagen, ossia il 50% degli Steely Dan, quel "The Nightfly" del 1982 che assomma una pluralità di valori: l'album che ai nastri di partenza del digitale negli studi di registrazione si contende con il floydiano "Dark side of the moon" la palma di miglior album inciso con la miglior tecnologia coeva disponibile, ed è quindi una sfida, ed è oltre a ciò un concept album molto personale (un proustiano viaggio nella memoria), una porta d'accesso pop-rock-funky all'immenso patrimonio del jazz grazie alla messinscena di icone come il grande Brubeck.
Un disco che notoriamente mette a dura prova i vostri impianti stereo, ascoltare per credere, ed è la quintessenza del piacere di ascolto. Piacere tantrico, altro che mordi e suggi. Anche se non avete la versione in Dvd audio ad alta risoluzione che ascolto io, basterà un buon vinile a sorprendervi, e non saprete cos'è la fatica d'ascolto, con altri vantaggi per soprammercato: ad esempio, con queste otto canzoni, per voi Sanremo tornerà a essere un'amena località rivierasca amica dei fiori a due passi dal confine francese e niente più.
Il disco di Fagen lo metti in loop per 48 ore nelle tue stanze (compresa quella che hai in mezzo alle orecchie) e non annoia mai, ritmo e melodie funzionano sempre, il piedino non sta mai fermo. Sia detto per inciso, come ulteriore parere aneddotico personale: mannaggia a quella volta che nella stessa sera a New York c'erano live sia gli Steely che Rachelle Ferrell e finii a vedere Roger Waters al Madison Square Garden. Ma non si può avere tutto nella vita e la vita è fatta di scelte, se non le fai tu le fa qualcun altro al posto tuo.
Gli Steely nel loro ahimé ultimo album del 2003 dopo la reunion "Everything must go" ci hanno regalato una delle canzoni più complesse in assoluto, difficile nella sua apparente semplicità come certi brani di Frank Zappa, quella "Godwhacker", arricchita dallo splendido assolo del compianto chitarrista Walter Becker scomparso nel 2017, di cui è difficilissimo fare cover (altro caso è la purtroppo dimenticata "Heathaze" dei Genesis, correva l'anno 1980). Peccato non averne in rete una versione live decente, per cogliere la maestria di Becker dal vivo in questo secolo occorre puntare sul live in Charlotte del 2006. Forse aveva ragione Glenn Gould, meglio incidere in studio e lì dare il meglio, a futura memoria. Voto 10 con lode e dignità di stampa imperitura. (Lorenzo Morandotti)