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JOHN M. BENNETT  "A flattened face fogs through"
   (2022 )

Cos'è la poesia? Come si distingue dalla prosa? Dall'accurata scelta delle parole? Anche. Dall'organizzazione in strofe? Dipende. Ma essenzialmente, la poesia fa trascendere le parole di cui è composta, avvicinandole alla dimensione artistica trascendente per eccellenza, la musica. Ecco perché spesso, queste due distinte forme espressive si incontrano.

John M. Bennett è un poeta d'avanguardia, classe '42, il cui stile personale può rimandare la mente a William S. Burroughs, per il dadaismo bizzarro e anche per l'approccio vocale declamatorio. In “A flattened face fogs through”, possiamo ascoltare la cifra stilistica a cui Bennett si attiene: voci manipolate, modificate durante la declamazione, accompagnate da suoni a volte distaccati dal testo, a volte in dichiarato rapporto dialettico (le parole negative di “No sax” sono circondate da un sax). La traccia “The Drive/The Discharge/The roof ripped off/Stone with a hole” potrebbe essere una poesia in quattro parti, oppure l'unione di quattro poesie. I titoli, durante l'ascolto, vengono sussurrati da una voce di bambino, mentre un flauto di pan intona delle note da rituale.

Da notare fin dal titolo del disco (''A Flattened Face Fogs through'', uscito per Editions Basilic/Luna Bisonte Prods) l'uso ricorrente dell'allitterazione cioè la ripetizione delle stesse consonanti nello stesso verso, sintomo di un'attenzione costante non solo al significato ma anche alla forma, tipica cura del poeta. I tappeti sonori sono spesso curiosi, a volte vagamente inquietanti ma non spaventosi: surreali, come la marimba in “Pod king”. A dire il vero, un po' di paura la fa “Last in line”, con suoni che paiono rubati da uno sci-fi degli anni '60.

Altro esempio significativo, da questa raccolta di 24 tracce (21+3 bonus tracks), è “Shirt”, che gira tutta attorno a questa maglietta, nominata più volte come anafora. E in sottofondo c'è una voce femminile che ripete “shirt, shirt...”. Si collega alla traccia successiva, “Pants”, dove la stessa voce ripete “pants” di continuo. Ma è Bennett che si prende l'attenzione dell'ascoltatore, con la sua voce tonante. La maglietta tornerà più avanti nell'ossessivo gioco di parole “The shirt the sheet”, fino alle urla. “If only could read what I wrote and get back”, recita in “The blur”, tra effetti speciali e un sassofono accennato.

Gli elementi che compongono le poesie di Bennett sono spesso paradossali, come in “Deaf”: “I was deaf as I dropped the phone”. In genere, le musiche sono spesso amorfe, accadimenti non strutturati. Fa eccezione “The radius”, dove c'è un drammatico susseguirsi di armonie e melodia tristissima, eseguita da un suono synth. Quasi tutte le tracce durano 1 minuto o poco più, le poesie sono come ciliegie: una tira l'altra. Fa eccezione “Evird Eht”. In questa, all'inizio Bennett si diverte a fare dei versi inacidendo la voce, come fece Underworld in “Born slippy”. Essendo la traccia che chiude il disco, prima delle bonus tracks, qui si concede più spazio alla musica: una confusa atmosfera sperimentale, tra trombe solenni, urla e percussioni elettroniche agitatissime.

Che dire, di un poeta che si autodefinisce lynchano, e che effettivamente si dirige verso coordinate simili, dal punto di vista dello straniamento? Meglio non dire niente, ed assumere un po' di garmonbozia. Forse afferreremo qualcosa di più. (Gilberto Ongaro)