VINTAGE VIOLENCE "Mono"
(2021 )
A dischi anormali mal si addicono recensioni normali.
Cioè, poi si può scrivere tutto ed il suo contrario nello stile preferito, anche usando un linguaggio forbito per parlare degli Aquefrigide, che proprio normalissimi non sono, per fare un esempio.
Ora vorrei dire alcune cose sui Vintage Violence.
Lecchesi, sono oggi un quartetto. Nicolò Caldirola, Rocco Arienti, Roberto Galli, Beniamino Cefalù, rispettivamente voce, chitarra, basso, batteria. Gente che è in giro da vent’anni. Dico: vent’anni. Ne hanno visti di palchi, mangiando polvere e guadagnando consensi. Riscuotendo il plauso pressochè unanime di critici, personaggi austeri e militanti severi, per non parlare di quello zoccolo durissimo che li segue e li ama ab urbe condita. Duri e puri (si dice così, no?) fino in fondo, fedeli ad una formula che chez nous in pochi conoscono ed interpretano.
Hanno lo humour caustico e sardonico dei Fleurs Des Maladives e lo sberleffo sfacciato e schifato degli Zen Circus. Nessuna truffa, Fiorellastri: è indie-rock, tutto qui, entrino pure i soloni a condannare la semplificazione di bassa lega. Canto dritto in faccia - quasi da hardcore per intenzioni, non per stile -, chitarra spigolosa, passo veloce, brani concisi che tendono al proclama, alla massima, alla sentenza.
Intelligenti, intriganti, pungenti.
Compreso il qui presente “Mono”, pubblicato per Maninalto! Records a sette anni da “Senza paura delle rovine”, i Vintage Violence hanno realizzato quattro album, un ep (“Cinema” del 2007) e una raccolta in acustico (“Senza barrè” del 2018). Tra reiterate affermazioni, tanti begli applausi a scena aperta e convinto endorsement del bel mondo indie nostrano, vivono tuttora una luminosa stagione di imperitura gloria sotterranea. Rimanendo sempre con un piede e mezzo sul confine tra il giro grosso e le quattro mura del microcosmo che abitano. Ci sono andati vicini a scavalcare la linea. Sicuramente all’inizio, ai tempi di “Psicodramma”(2005) - gli stessi anni della partecipazione ad Arezzo Wave, a Rock Targato Italia, a Sanremo Rock. Ma anche più tardi, sia con il tour seguito a “Piccoli intrattenimenti musicali” (2011) sia con il già citato “Senza paura delle rovine” (2014), salutato dagli osanna di illustri penne del giornalismo musicale di casa nostra.
Ora vorrei dire alcune cose su questo disco dei Vintage Violence.
Sono praticamente certo di avere già espresso le stesse idee per qualche altro album, ma non mi ricordo quando, nè per quale. E se non mi ricordo io che quelle cose le avevo scritte, figuriamoci chi mi ha letto. Quindi riciclerò l’idea, ma in buona fede. Perchè la penso sempre allo stesso modo.
In ordine sparso: il bello di certi dischi è che quando li ascolti per la prima volta non sai prevedere con certezza - neppure relativa - cosa accadrà nella prossima canzone.
Non solo: aspetti quella prossima canzone con un misto di curiosità e di golosità. Non vedi l’ora che i primi dieci secondi ti diano la conferma che sì, è proprio un gran disco, non ti eri sbagliato.
E poi: il bello di certi dischi è che ti sbattono in faccia i loro testi scomodi, provocatori, irriverenti e tu sei contento come una Pasqua mentre continui a canticchiarti in testa che siamo come neve nera ai lati delle strade. Ossia schifezza sporca che si scioglierà, o che verrà spazzata via. Ma te la ripeti con un che di gioioso, mentre ti entra in testa come un chiodo (come un chiodo ama il muro, dicono loro) e non se ne va più. E parlo solo dei quattro minuti e mezzo di “Piccolo tramonto interiore”, brano di apertura con un testo talmente opulento che è perfino troppo.
Da lì alla chiusura desolata – amaramente autoreferenziale, perfino triste a modo suo - de “La chiave” succede di tutto, in un flusso ininterrotto di parole pesanti sparate in faccia come aria compressa, tra intuizioni punkettare (“Dio è un batterista”) ed irresistibili boutade anthemiche (Dio non è con te/sarai tu che sei strafatto/non guarisci perchè/non ti sei ammalato affatto, “Zoloft”), sbrindellate love story malaticce (“Capiscimi II”, complemento a “Capiscimi” sull’album precedente) e mitragliate durante le quali vorresti solo avere ancora vent’anni per essere sotto un palco a fare a spallate con qualche sconosciuto (“Astronauta”). Ecco, “Astronauta”, proprio questa: come se i Razzi Totali suonassero un pezzo scritto da Niccolò Contessa. Quasi è commovente quel ritornello, perchè mi vedo a gridarlo contro tutti o nessuno, che sia adesso o una vita fa.
Rispetto ai suoi predecessori – tutti essenziali, nessuno escluso – “Mono” è più a fuoco. E’ più maturo e meno istintivo, nonostante sia sempre l’istinto a dominare ogni sillaba ed ogni accordo. Saranno gli anni sulle spalle o la riflessione che guadagna ancora in profondità: sta di fatto che i pezzi conservano la cattiveria di sempre, inzuppati in un bagno acido, ma suonano più rotondi, meno ruvidi. E crudamente centrati nella loro abrasiva mistura di ritmi frenetici, rime velenose, cinismo bieco, fatalismo irrequieto e dispettosa invettiva socio-politica.
Vuole insinuare dubbi, invitare a condannare, indurre a pensare. Magari vuole dare fastidio, ma con me non funziona, io non abbocco: lo ascolto quando cucino, o sotto la doccia, o mentre guido, o come mi pare, perchè è un gran disco e basta.
Neopaganesimo e Braulio alle sei di mattina/col sangue in bocca e i Velvet Underground alla radiolina.
E ho detto tutto. Anzi no, questa è vecchia. Rifaccio.
Dammi tre parole: sudore rumore liquore.
A posto così. (Manuel Maverna)