recensioni dischi
   torna all'elenco


NEVICA  "QuaNti"
   (2021 )

Difficile attribuire una valenza strettamente artistica a dischi che così tanto hanno a che fare col dolore, edificati come sono su ricordi troppo pulsanti e su presenze mai del tutto svanite.

Il confine tra la necessità del racconto e il desiderio di dargli una forma adeguata ad esprimerlo è labile: cosa ci sia realmente – e cosa debba essere colto - in “Carrie & Lowell” o in “Electro-shock blues”, in “A crow looked at me” o in “Songs for Drella”, opere catartiche il cui fine ultimo è lo sforzo estremo di liberarsi di un fardello troppo pesante da portare, è ben ardua sentenza.

“QuaNti” non fa eccezione: ciascuna delle sette tracce è un piccolo toccante compendio di amore filiale, devozione, riconoscenza, gratitudine, ma anche di ripensamenti, incertezze, rimpianti mascherati, umane debolezze. E’ un disco ovviamente triste, ma che paradossalmente non cede alla tristezza: la tiene stretta come una compagna di viaggio, ne fa strumento di redenzione, la accarezza plasmandola in fogge che suggeriscono una tenerezza di fondo mai melodrammatica nè ridondante.

Mente e anima dietro a questa cattedrale di emozioni in libertà è Gianluca Lo Presti (già Nevica Su Quattropuntozero, Nevica Noise, da “Tengo” in avanti semplicemente Nevica), guru del suono impegnato da lungo tempo sia in qualità di producer che di (cant)autore sui generis, penna raffinata e intelletto vivace.

Frutto di una sensibilità spiccata e sincera, “QuaNti” è un tributo-omaggio al padre, che continua – invisibile - a lasciare orme sulla sabbia a due anni dal commiato; è una celebrazione serena, fatta di istantanee sbiadite e stralci di registrazioni da un tempo che fu, di spezzoni e flash riassemblati a ricostruire un percorso che solo il naturale corso degli eventi ha interrotto.

La scelta di rinunciare al ritmo a favore di un’ampiezza di suono esaltata dalle dilatazioni dei synth crea uno scenario traslucido, sospeso in una bolla che mi ha ricordato – per restare chez nous - il meraviglioso “Kintsugi” del Collettivo Ginsberg; intimo e appassionato, è un album che rovista tra vecchie foto alla ricerca di dettagli cari, appoggiato ad una complessità armonica e compositiva svelata - come sempre - solo da reiterati ascolti.

Aperto dalla morbida mestizia di “Un piatto solo” – la quotidianità sovvertita, divenuta nuova normalità – e chiuso da una magistrale cover di “The fragile” dei Nine Inch Nails, per l’occasione trasposta in italiano ed impreziosita dalla chitarra di Sara Ardizzoni, “QuaNti” veleggia ondivago su un oceano di melodie rigonfie e maestose, dagli echi Cure (periodo “Faith”) di “Aperture” all’aria battiatesca della title-track, dalle asperità di “Buon continuo” – specchio che riflette in musica i contrasti e le riconciliazioni di una vita intera – alla fanciullesca rimembranza de “I Klaus”, col canto alternato alla voce paterna che legge al figlio come fiaba della buonanotte “Il piccolo Claus e il grande Claus” di Andersen: ora è il figlio a leggerla al genitore, in un postumo, tardivo, amorevole ribaltamento di ruoli. E’ il mio turno di raccontare, sembra dire. Mentre il mondo ci fa male/per poterti salutare/io ti leggo i Klaus.

Prima che “The fragile” cali il sipario, resta ancora da assaporare l’atmosfera languida, ammaliante ed inafferrabile condensata nei sei minuti di “Non so chi sei”, episodio di vibrante intensità a metà strada tra epitaffio e testamento spirituale, con la voce campionata di papà spenta in una coda eterea che sa di arrivederci. Stai con me in questa nuova luce/biondo che diventa oro/in mezzo a queste voci mi perdo/per ripulirmi mi perdo in te.

E’ l’ultimo saluto, forse solo il tentativo di lasciarlo andare, o forse il modo migliore per tenerlo con sé. (Manuel Maverna)