SOREN "Ultima necat"
(2021 )
Questo disco è un testamento. O un necrologio, fate vobis. In ogni caso pietà è morta, è morta la speranza.
Il cielo sopra Roma è fosco e plumbeo. L’aria è tossica e inquinata come il veleno che scorre nelle otto tracce raccolte ed assemblate - eppure così sinceramente ferali - di “Ultima necat”, epitaffio che suggella la conclusione del progetto Søren trascorsi otto anni ab urbe condita.
L’ultima pagina la scrivono ridotti a trio, Matteo Gagliardi (voce, synth, programming), Diana D’Ascenzo (voce, chitarra) e Fabio Fraschini (basso, oltre a mix e mastering), quest’ultimo prestato alla causa per le esequie.
Quello che va in scena in ventinove soffocanti minuti è un commiato che sa di fiori appassiti, piccolo trattato sulla morte, non soltanto figurata o simbolica. In una bolla di oscurità che un tempo avrebbe preso nome di dark-wave si materializza una pietra tombale: è stesa su un act che ha segnato una breve ma importante stagione sotterranea, l’estrema propaggine di un volo durato un batter di ciglia ed inghiottito dalla trappola senza nome che scioglie le band senza un perché.
I primi quattro brani sono parte integrante del repertorio dei Søren che avrebbero potuto essere e non saranno, gli ultimi quattro risuonano come il discorso commosso di un amico fraterno ad un funerale.
Per capire che aria tira sono sufficienti i primi dieci secondi di “Everything is falling apart (so below as above)”. Introdotto da una cadenza mortifera e dal pulsare metronomico del basso, un quattro quarti ossessivo trafitto da un giro in minore ripetuto fino allo sfinimento dipana in poche strofe il racconto sbavato dell’ultima crisi che ha mandato tutto all’aria.
E’ il preludio alla title-track, che avanza malevola e tagliente, segnata da suadenti impasti vocali goticheggianti a creare un clima straniante, al contempo afflitto e minaccioso, incombente e rassegnato: siamo dalle parti di Sisters Of Mercy, Lycia, Sophia, perfino Current 93, una landa desolata in cui arrancano sfinite la ballata contrita di “You shall perish!” e il diafano rallentamento di “The dead land”.
Se possibile, la seconda metà del lavoro spiazza e confonde ancor più della prima: a Max Varani dei Venus In Disgrace è affidata la rilettura di “You shall perish!” in raggelante chiave electro, con echi tra Reznor e Schneider TM a rendere ancora più algida un’atmosfera già sufficientemente agonizzante; ad Anna Soares spetta invece la rielaborazione di “Everything is falling apart (so below as above)”, proposta in una buia veste dub/trip hop con trionfo di bassi a riecheggiare ingannevoli profondità bristoliane d’antan.
Ma ancora non basta.
I due episodi conclusivi – entrambi in italiano – spostano il mirino altrove. Cambiano scenario, senza mutare il tema portante. “Le ragazze di Selargius” stende il suo breve recitativo di ordinaria disperazione prima di lasciarsi fagocitare dai due minuti di un’ampia melodia disegnata dalle tastiere, contrappuntata da vocalizzi celestiali, convogliata verso un nulla che per la prima volta ed unica volta lascia trapelare una lama di luce.
Spenta immediatamente nel letale gorgo industrial di “Terapia intensiva”, con Gianluca Divirgilio (alias Arctic Plateau) a sommergere sotto strati di elettricità disturbata e filtri spettrali un racconto smozzicato intriso di una sofferenza quasi tangibile, mai realmente domata fino all’ultimo istante, come fosse una vita che si dissolve al culmine del dolore.
Nella belletta i giunchi hanno l'odore/delle persiche mézze e delle rose/passe, del miele guasto e della morte.
Intorno, solo foglie cadute e silenzio. E la presenza invisibile di qualcuno che non c’è più. (Manuel Maverna)