LANDART "Loud desire"
(2021 )
Per invaghirmi – ed anche piuttosto perdutamente - di “Loud desire”, delizioso esordio per Dischi Soviet Studio dei Landart, quartetto guidato dalle sorelle Daniela (voce e chitarra) ed Eleonora (chitarra) Dal Zotto, affiancate da Giorgio Manzato (basso) e Davide Bregolato (batteria), ho impiegato – a conti fatti – più o meno un minuto, circa un terzo dell’opener “The storm inside”. Che è una ben strana creatura: un’insolita rumba infarcita di misurati tropicalismi, straniante mistura di atmosfere desuete e suggestioni retrò in veste wave, goloso pastiche che richiama addirittura la Siouxsie meno plumbea del periodo tra “Peepshow” e “Superstition”.
Scritto (e addirittura già registrato) quasi interamente nel 2017, l’album vede la luce soltanto oggi a quattro anni di distanza dalle sessions da cui nacque, al termine di uno iato durante il quale la band ha comunque lavorato incessantemente sui brani poi confluiti nella versione definitiva. Figlio sì del progetto Sarah Schuster - formatosi nel 2006 come quartetto, quindi portato avanti in trio dalle due sorelle e dal batterista Matteo Mosele -, ma lontano da alcune asperità che segnavano la precedente esperienza, “Loud desire” scorre soffice e carezzevole, rivestito di un garbo mai pomposo nè stucchevole.
Nemmeno il tempo di interrogarsi su cosa esattamente stia succedendo in quell’apertura a suo modo inusuale, e a prendersi la scena è il passo incalzante à la White Rabbits di “The cheater”, con intrigante impasto vocale tra Daniela e Davide: è solo uno tra i molti esempi di uso di varie voci – siano portanti o utilizzate come cori – nell’arco di trentadue minuti articolati e cangianti, mai legati ad influenze evidenti o riconducibili a modelli preconfezionati, caratterizzati da un’andatura sciolta e spedita.
Tratto saliente del lavoro è la fluidità dei brani, che scorrono privi di divagazioni cervellotiche. Non azzardano, non sperimentano, non si complicano la vita: semplicemente funzionano, in un’allettante miscela non necessariamente omogenea, ma affascinante.
I cinque maestosi minuti di “Museum of dreams” - abbrivio da Jayhawks e climax di strabordante intensità ad un centimetro dai Fleetwood Mac – sono una pennellata di classe realizzata con la massima nonchalance, la stessa che guida “Fifteen years” attraverso i meandri di un’aria d’antan morbida e raffinata condita da un paio di accordi memorabili, tra echi di Norah Jones ed una deriva tardo-romatica degna di Joanna Newsom.
Dal delicato acquerello acustico di “Miniverse” alle timide suggestioni indie di una “Holy smoke” che oscilla tra i bassi liquidi delle Warpaint ed un inciso memorabile à la War On Drugs, dai prodigiosi cinque minuti di “The battlefield” – quasi un blues in minore o uno spiritual dolente – agli echi vagamente Calexico di “Fading in the sunlight”, fino al toccante commiato condensato nei sessantotto secondi a cappella di “Far from me”, l’album conserva intatta la sua anima sognante, infusa in un continuum sfaccettato dalle molte ricercate sfumature. Non è pop, non è rock, non è folk, ma sa perfettamente come librarsi sulle ali di una scrittura solida ed essenziale, costellata di preziosi dettagli armonici e pervasa da una sottile, attraente malìa. (Manuel Maverna)