SCHIAMAZZI "Schiamazzi ep"
(2021 )
Se questo disco fosse durato – che so – tre ore e un quarto, giuro che me lo sarei bevuto senza battere ciglio, come si beve un vino inebriante o una tisana melissa e biancospino.
L’autore di questa piccola perla di cantautorato problematico porta il nome d’arte di Schiamazzi: è genovese, e vuole preservarsi celandosi dietro un alone di mistero, o soltanto rifugiandosi in un anonimato protettivo. Di mestiere è medico. Psichiatra, per la precisione. Leggo che alcuni testi – o frammenti, idee, bozze, appunti – li ha scritti nelle pause fra i turni in ospedale, talvolta di notte.
Parlo piano che il karma ci ascolta/e non vede l’ora di farcela pagare/per tutte quelle balle raccontate a fin di male/e poi lasciate lì a seccare
Debutto autoprodotto, raccoglie cinque tracce scarne, essenziali, fatte di poche cose, ma ricche di un fascino profondo, intenso, denso come lava, diciotto minuti che non smetteresti mai di riascoltare, svelando ad ogni passaggio una sfumatura sbavata che era sfuggita, un’inflessione pigra, un accento sofferto, una strofa da interpretare diversamente da poco fa.
In effetti era vero che “ti amerò per sempre” è una dichiarazione/non di durata quanto piuttosto di intensità/e pensai io che scemo/credevo proprio intendessi “fino alla morte”/in due come i vecchi nelle tombe doppie/e poi anche oltre
Regala immagini che subito si lascia alle spalle, come se tentasse paradossalmente di dimenticare ricordando. Dissimula. Mugugna. Il crooning baritonale, sempre vagamente afflitto, si offre agli astanti in quelle che sembrano canzonette, ma che rivelano un’anima pesante ed una mente incline a riflessioni plumbee appena nascoste a tratti da un velato umorismo noir.
Marta ti ricordi di quando eri nel tavolo a fianco/io tornando dal bagno ti ho detto con uno sguardo/che avevo vomitato e che bella storia che era iniziata/io disperato tu un po’ viziata
E’ sardonico nell’opener “Distruzione di Marta”, emblema dell’ep con la sua narrazione tanto vivida quanto lapidaria di un non-amore gettato via o forse mai neppure nato; falsamente chiassoso nel folk sbrindellato à la Violent Femmes di “Fèlicette”; deluso nella confessione disincantata - quasi un Rino Gaetano narcotizzato, o un Vasco Brondi al naturale - di “Dicotomia”.
Io non so cos’ho/comunque spero che non sia un infarto/questo dolore intenso che sento nello sterno/da un po’ di sere quando ritorno nel mio letto
Il linguaggio schietto e viscerale di “Nel furto è la speranza” si accompagna ad un chorus sontuoso nella sua inevitabile desolazione; lo stesso sentimento che prende per mano la conclusiva “Vico Dell’Amor Perfetto” e la conduce tra un dedalo di piccoli fallimenti, mascherati a stento dalla rigidità della nostra meravigliosa toponomastica, snocciolata in sequenza ad unirli come fossero i puntini della Settimana Enigmistica.
Oltre al presente non c’è niente/adesso ed oggi sono gli unici sovrani/mentre domani è già in esilio/e il passato per quel che ne so io se lo son mangiato i cani
Musica dolente, intima, amara: nuda e bellissima, e poco cambia che sia realizzata in punta di chitarra o con il sostegno dei numerosi collaboratori (su tutti Matteo Zangrandi in veste di co-autore, produttore e musicista) prestati alla causa.
Una manciata di canzoni dirette e tristi, depresse, buie, massicciamente declinate in tonalità minori: mutatis mutandis, sfiorano Nick Cave e Leonard Cohen, ma l’ombra lunga e grave di Faber – giocoforza – è lì dietro l’angolo tra Molo e Maddalena, in un vico qualsiasi dove la luce del giorno non filtra. (Manuel Maverna)