TULAY GERMAN & FRANCOIS RABBATH "Tülay German & François Rabbath"
(2021 )
Questo è un periodo di numerose ristampe, a quanto pare. Ed è una tendenza preziosa, per riscoprire musica magari dimenticata, o ancora misconosciuta a molta gente. Oggi facciamo un salto nel 1980, tecnicamente in uno studio di registrazione a Parigi, ma i due musicisti hanno origini rispettivamente dalla Turchia e dalla Siria.
La voce di Tülay German, classe 1935, attinge dal folklore turco, ed è testimonianza della storia del suo Paese. Accanto a lei, il contrabbassista François Rabbath, nato nel 1931 ad Aleppo (Siria), accompagna la voce di German con contrabbasso e anche (e soprattutto) con la chitarra saracena, o semplicemente saz. Queste sonorità sicuramente suoneranno familiari ai deandreiani incalliti, pensando a “Sidun”, drammatica canzone ambientata nel vicino Libano. Così, solo per capirci a parole.
L'album omonimo, tornato alla ribalta per Zehra Records, è composto da tredici pezzi, dove la parola d'ordine è suggestione. A volte si percepisce un impianto tonale, per così dire “occidentale”, come all'inizio di “Leylim lei”, a volte invece i vocalizzi di Tülay seguono i cromatismi mediorientali. A volte l'atmosfera si fa sospesa, come in “Mapusane”.
Sembra una preghiera, un rituale per sola voce, “Kadinlarimizin yuzleri”. Episodi molto drammatici sono “Kirdilar”, “Ne bilir” e “Kalkti goc eyledi avsar elleri”, dove siamo trascinati da una melodia dolorosa, e poi “Elif”. German è davvero coinvolgente, si fa seguire sia quando canta forte, sia quando emette piano piano delle vocali sofferte.
Ci sono anche episodi di dolcezza commovente, quasi natalizia, come “Bana seni gerek seni” e “Gozumde daim hayal-i-cana”. “Gelin canlar bir olalim” ha un andamento freddo, quasi marziale, mentre Rabbath a metà di “Sarki soylemek istiyorum” ci concede un assolo strofinato di contrabbasso. “Dere Geliyor” alza l'adrenalina, con uno spirito avventuriero, da inizio di un film d'azione tra le sabbie.
Ovviamente lo scoglio più duro per noi è la lingua. Non possiamo sapere, dunque, perché il disco si concluda con un pezzo come “Abidin”, di appena trentacinque secondi. Ma la forza della musica sta nel suo essere asemantica. I turchi (o comunque chi conosce il turco) sicuramente potranno apprezzare anche il lato verbale, ed il significato delle parole, se c'è o meno una forma più poetica o più prosaica. Per tutti gli altri, il disco di Tülay German e François Rabbath resta un prezioso dono culturale, da preservare e tramandare. (Gilberto Ongaro)