ANGELO SAVA "Paura."
(2021 )
Per l’anagrafe, Angelo Sava è nato a Bari.
E’ cresciuto lì, poi ha iniziato a migrare ovunque, in Italia e altrove. Attualmente è Bologna a dargli asilo.
Ma in un mondo fuori dal mondo e dalle carte geografiche, Angelo Sava è solo uno spirito irrequieto che abita da qualche parte tra brutti sogni e incubi, tra grottesco e tragico, tra follia e sprazzi di malsana lucidità.
Vive in un Eden rovesciato popolato di visioni, ricordi, spezzoni di memorie, flash riassemblati apparentemente a caso in testi che somigliano a raccolte di frammenti, di schegge, di detriti: un microcosmo sbilenco, disallineato, perennemente fuori fuoco, dove ogni parola detta o non detta spaventa per ciò che è o per ciò che non è.
Ogni disco di Angelo Sava è come una fossa spalancata nel buio, un abisso privato in cui sprofondare all’improvviso senza accorgersene. I suoi album sembrano nascere per necessità: sono flusso di coscienza, training autogeno, psicoterapia, monologo interiore. Immagino Angelo su una ribalta scricchiolante mentre esegue i suoi pezzi di fronte ad una sala vuota: non credo che a lui importi un granchè di chi lo stia o non lo stia ad ascoltare. Ciò che fa, lo fa in primis per se stesso: se poi qualcuno ne condivide i fantasmi, ben venga.
“Paura.” non fa eccezione. Ancora autoprodotto in totale libertà ed in imperfetta solitudine (Annalisa Vetrugno e Lori Gentile collaborano), segna un ritorno inatteso di Angelo a tre anni da “Postumo”, che pareva aver inciso nella pietra l’epitaffio definitivo alla parabola di un’anima troppo tormentata per proseguire oltre. Troppo confusa, troppo schiacciata da gravami insostenibili, troppo fragile per rialzarsi. Staccata la spina, Angelo aveva salutato e comunicato il suo allontanamento da tutto e da tutti. Lo scopo: tornare alla natura, alla campagna, all’essenzialità, lasciandosi alle spalle l’inutile, il vacuo, l’inservibile.
Mi scrisse qualche riga su Messenger per dirmelo: la suicide note sui generis di un artista destinato a rintanarsi – da vivo - nell’ombra. Rimasi di sasso, ma fui contento per lui, ne aveva bisogno.
All’epoca non riuscii a recensire “Postumo”, faticai anche ad ascoltarlo, mi mise a disagio: troppo personale, troppo violento nelle immagini e nelle parole. Uno sputo in faccia come addio, uno sberleffo sull’ultimo sipario. Un disco sporco fino al midollo, disilluso, sconfitto, che spurgava rancore e malessere prima di chiudere bottega a tempo indeterminato. In fondo, un non-disco che passava dall’elettricità disturbata e solitaria di “Addio Pimpa” o di “Miasmi” all’elettronica disturbata e solitaria di brani impossibili, un’elettronica marcia e corrotta, un po’ Suicide un po’ Jacopo Incani, veicolata da testi altrettanto sozzi e carnali, viscerali e gonfi di un astio palpabile. “Postumo” era il “Pornography” di Angelo Sava: una liberazione, o soltanto una cesura.
“Paura.” pare ritrovare pace, ma è una quiete illusoria, menzognera. Regredisce ad uno stadio quasi primordiale, come ad una dimensione fanciullesca pre-tempesta, almeno nella forma, di nuovo improntata all’elettronica. La sostanza invece fa ancora male, anche se il linguaggio usato per comunicare è meno feroce e più visionario, addirittura spinto fino ad un ermetismo talora impenetrabile.
Il canto è talvolta nascosto: non tanto da essere inudibile, ma nemmeno così facilmente comprensibile dietro il paravento di melodie falsamente coinvolgenti, puntellate da drum-machine e campionamenti, attraversate da ripetizioni testuali ossessive in ogni brano, con intento quasi mantrico. La musica non è godibile. Non infastidisce, non prevarica, non scuote. Ma non si lascia possedere.
Aprono i sei minuti di “Kreuzkölln”, tappeto di synth tra Giacomo Giunchedi e Collettivo Ginsberg, dilatazione che avanza in cerchi concentrici mentre veleggia mite verso il nulla. Stende il suo breve testo, fotografa immagini di desolata perdizione (“stasera Ann incontrerò/e temo che non ce la farò/quando esco così faccio pena ai tossici”), esita, lascia andare il ritmo solo quando mancano una quarantina di secondi alla chiusura, in brusco fade-out.
E’ il preludio all’emocore composto – un po’ Cosmetic, un po’ DIIV – di “Malpighi” (il policlinico di Bologna), straziante nei suoi pochi versi sofferti che sanno di flebo e aghi, introdotti da un inequivocabile “Io non dimentico/io porto rancore” e raggomitolata su un dolore da dimenticare, prodromo della speranza a brandelli che affiora dal battito gelido e metronomico di “Lush” (“un cuore ferito/non diventa malvagio/se viene curato”).
Curioso: nessun brano stimola pensieri aggressivi, violenti, malevoli, eppure sotto la superficie striscia infida una serpe che inietta a tradimento il suo fluido venefico.
La serpe assume le sembianze di “Sissi”, altri sei minuti che per metà caracollano plumbei su un quattro quarti cupissimo à la Cure (“quando sogno sono un cecchino/sotto le coperte ammazzo tutti”), prima di spegnersi in un break dilatato, tra rumori, voci, bassi profondi. Quando il canto riprende lo fa snocciolando un testo delirante che si infila nell’ennesimo fondo cieco, o forse in un altro letto di ospedale. Il ritmo non riparte mai. La visione si dissolve come pulviscolo in una nebulosa. Intorno, nebbia e rimembranze vaghe, come quelle di “Polvere in controluce” (“questa è la polvere/ricordi che somigliano a te/cassetti, scaffali, finestre, mobili, persone, ricordi”).
E se “Farmacie”, sventrata dall’incessante reiterazione del refrain “questa donna è nella mia bocca”, riecheggia perfino Niccolò Contessa, il graduale crescendo che satura l’eco wave di “Solubile” si spegne nei pochi accordi scarni della conclusiva “Sottili”, un dimesso arrancare verso il solo commiato possibile, almeno per ora: “Il passato muore se il presente gli taglia la gola”.
Che significa: ricominciamo da qui, uccidiamo il passato, ma il presente è un assassino.
Quel messaggio sul cellulare lo conservo ancora: spero di non riceverne un altro simile, ma con Angelo Sava non esistono certezze.
Forse i demoni se ne sono andati, ma la traccia di ogni loro passaggio rimane, come il segno lasciato dalla frustata urticante di una medusa.
Per quanto tempo, dipende dalla medusa. E dal demone. (Manuel Maverna)