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WHITE THUNDER  "Maximum - A journey of a billion years"
   (2021 )

I White Thunder sono un quintetto romano della scena progressive metal della capitale che debutta sulla lunga durata dopo un EP del 2019.

L’album colpisce immediatamente per l’alta qualità della produzione, davvero di livello internazionale, un dettaglio importante che li potrebbe aiutare a catturare l’attenzione anche dei non amanti del genere.

Altra grande qualità che emerge dall’ascolto di “Maximum - A Journey of A Billion Years” è la precisione metronomica della band, una compattezza che riesce a tenere quasi sempre a bada l’indole irruenta del metal fino a quando la tensione cresce al massimo, fino a spezzarsi, e allora la bestia mette fuori la testa con la sua voce afona e sinistra tipica del death più cruento.

Come il genere impone, le dieci tracce partono dal metal per mutare durante il loro svolgimento in altre creature, che mescolano stili con continui cambi di dinamica tra rallentamenti, sospensioni, assoli, momenti corali e addirittura, ma diciamolo sottovoce, aperture melodiche dal sapore pop.

Tutti i brani, quindi, si presentano come mini suite, non tanto per le durate, sempre intorno ai cinque minuti, quanto per le variazioni, i tanti sviluppi e movimenti.

Ci sono squarci d’intensa epicità come nel brano che apre il disco “Timeless Despite”, dilatazioni psichedeliche dopo intro marziali in “Orbit”, influenze post punk alla Killing Joke ma anche Ultravox periodo Midge Ure in “Maximum”, intervalli acustici in “Mainmast (Craving Silence)”. Irruzioni pop fanno capolino nel pezzo più estremo, più death metal, “Everlasting Sight”, ma anche nel brano più lineare dell’opera, il singolo “Trial”.

Per “Wait for the Sun” i White Thunder svestono le loro armature metal e ci mostrano i loro cuori da rocker per una prog ballad che parte con un intro piano e voce ispirata dell'ottimo Mattia Fagiolo.

Anche “Kùma” ricalca lo stesso canovaccio e sembra chiudere i giochi, ma il sipario si riapre per il gran finale “Away from the Sun (H.t.c.b.h.)”, che dà libero sfogo a tutta l’espressività del quintetto, nove minuti di forza trattenuta e liberata, una cavalcata tra riff granitici, cambiamenti ritmici e voci trattate. Sicuramente il brano più Dream Theater del disco ma anche il più interessante.

Perfetti meccanismi ad orologeria ma dotati di determinazione e abilità compositiva, una volontà che li porta a sviluppare la materia metal per fonderla e ottenere forme differenti e cangianti sempre con una qualità sonora ottima.

Macchine da guerra in tempo di pace, che devono continuare nel solco tracciato per ottenere risultati ancora più sorprendenti. Da seguire con attenzione. (Lorenzo Montefreddo)