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THE BLIZZARD SOW  "Foggy songs for the first periods"
   (2021 )

Questo disco l’ho ascoltato quattro volte, ma la migliore è stata l’ultima.

Perchè non è che un disco così lo si possa ascoltare a cuor leggero, mentre cucini le seppie o in coda sulla Milano-Venezia. Un disco così richiede dedizione. Ma totale, incondizionata. Vuole la tua disponibilità a perderti, a lasciarti sopraffare, a concederti senza remore.

Io sì che mi sono arreso come si deve.

Avevo mal di testa: l’età avanza, i primi freddi ti fanno scricchiolare cervicale e tempie. Allora ho preso la suprema decisione di ritirarmi nelle mie stanze, come i nobili nei castelli. Ho scaldato il cuscino svedese, mi sono preparato una tisana melissa e biancospino, ho abbassato leggermente le imposte, collegato il pc alla cassa bluetooth, ho premuto play e mi sono sdraiato come Tutankhamon (però vivo) nel sarcofago. Le sei di un sabato pomeriggio di ottobre, già di quel colore grigio-Milano che ci terremo fino a primavera.

Poi sono (ri)partiti i cinquantaquattro minuti di “Foggy songs for the first periods”, nuovo album - prodotto da Yann Caravan per la label tedesca E–Klageto - di The Blizzard Sow, duo francese formato dallo scrittore, poeta e cantante Guillaume Boppe e dal compositore Denis Frajerman. Protetti dalle identità fittizie di William Boppe e El Faroud e supportati da musicisti di valore assoluto, in arte si fanno chiamare The Boppe Brothers, ma è soltanto un altro dei molti trucchi di cui è disseminata la loro strada. Iniziata – tra parentesi – con “Baagou music”, esordio datato 2004 al quale la strana coppia ha dato un seguito a diciassette anni di distanza. Nel mezzo, la carriera solista di Denis, il canto del cigno dei Palo Alto, gli scritti di Guillaume. Poi questa perla nera: un disco ispirato dalla mestizia provata nel corso delle molte visite dello stesso Guillaume (che usa il termine-concetto goethiano di “Sensucht”) all’ospedale psichiatrico dove il fratello musicista è permanentemente ricoverato.

Fin qui, il dovere di cronaca.

Nel frattempo, nell’ora che volgeva al crepuscolo ho concesso a questa musica inafferrabile di afferrarmi lei come lei voleva, scivolandomi addosso, avvolgendomi come un manto, o come un sudario, non saprei. Ho lasciato che i pensieri vagassero senza costrizione, annebbiandomi un po’ la vista, ma riempiendomi l’anima ed il cervello di una strana mistura di ebbrezza narcotica e di cupa beatitudine. Durante “Homesick” ho creduto di ascoltare i Suicide, su “Grammar of the deep sea” i Japan. Impressioni, suggestioni. Un mondo nascosto.

Riuscire anche a definire quindici tracce così, è un’impresa.

Grossolanamente: immaginate lo Scott Walker periodo “Bish Bosch” che canta canzoni scritte dai For Carnation, con il profondo timbro cavernoso di Guillaume che indulge indifferentemente al melodrammatico o all’irrequieto, forte di una teatralità che oscilla dal raggelante all’esaltante con una disarmante, irrisoria facilità.

Nel mezzo del cammin, succede di tutto: l’impressione generale è quella di una finestra socchiusa sulla brughiera, dalla quale occhieggiare il passaggio repentino di una nuvola, di una figura, di un corvo, di un cavallo, di una carrozza. Dettagli: il resto rimane sfuggente e solo ipotizzabile, ciò che si percepisce è unicamente un angolino del panorama, che resta oscuro.

Dall’opener per basso, disturbi e feedback di “Bus driver” alla notte fonda di “Daddy has drunk the sea”, sventrata da fiati e dissonanze agghiaccianti prossimi alla contemporanea o alla no-wave, da una “The broken bike” che sarebbe piaciuta a Syd Barrett al cabaret mitteleuropeo di “Auntie Rosie” (Marc Almond docet), passando per l’afflizione conturbante à la David Tibet di “The Christ on ice” o per le atmosfere tetre e decadenti di “The lights on the hill” nelle cui stanze vuote e desolate risuona l’eco spettrale di Chelsea Wolfe, l’album è un florilegio di tessiture a stento prevedibili, un susseguirsi di suoni ed umori volubili, di spinte e frenate improvvise, di armonie mascherate e rumori gentili uniti dal fil rouge di un’indole umbratile, capace di mutare la luce in tenebra – e viceversa – nello spazio di una strofa.

Appunto: nell’arco dei sedici minuti finali, con un coup de theatre assolutamente impronosticabile visti i trentotto minuti precedenti, ecco una sequenza di cinque canzoni in francese dall’andatura lineare, perfino confortevole. “Dans les champs de la nuit” ha ritmo e melodia, palpita e scalpita con un feeling tra Bashung e Souchon mentre non più tardi di duecento secondi fa sembrava di soffocare in un cunicolo da incubo degno dei Naked City. E così via tra la breve e toccante “Le ramoneur”, la lullaby di “Plein d’etoiles”, la gentilezza ingannevole di “L’homme-absinthe” (scritta appositamente su commissione per una mostra sul Messico e rappresentata nell’aprile di quest’anno a Confolens), fino all’epilogo di “Que peut ton ivoire”, synth chiesastico e marcetta à la Thomas Fersen affogati in una coda notturna e suadente.

Tutto fuori posto nonostante le apparenze, o forse è l’esatto contrario, se è vero che per quasi un’ora pare di assistere alla proiezione in musica di un film di David Lynch.

E’ come in “Mulholland Drive”: riesci a seguire la trama fino ad un certo punto, poi devi lasciarti possedere senza porti troppe domande.

E arrenderti come si deve. (Manuel Maverna)