GENEVIEVE MURPHY "I don't want to be an individual all on my own"
(2021 )
Nel luglio del 1999 trascorsi una bella settimana a Parigi con il mio amico Giacomo.
Con Laura stavamo insieme ufficialmente da tre mesi, avevamo in programma una decina di giorni al mare insieme il mese successivo, ma nel frattempo decidemmo per una breve vacanza separata. Lei era con sua cugina a Nizza, ricordo che ci chiamavamo intorno alle sette di sera una volta ciascuno, sempre sul telefono dei rispettivi hotel, per non spendere troppo di cellulare. Io cacciavo Giacomo in bagno per avere un minimo di privacy, costringendolo a tenere aperta l’acqua della doccia per fare un po’ di rumore e non sentirci amoreggiare via cavo.
Tra le altre cose, sia Giacomo che io eravamo e siamo tuttora appassionati di arte in ogni sua forma, e non ci facemmo ovviamente sfuggire la ghiotta occasione di visitare mostre, musei ed esposizioni varie, di cui Parigi è sempre superbamente ricca.
Una in particolare ci colpì come uno schiaffo, tanto che ne conservo tuttora il foglio illustrativo ad imperitura memoria: si trattava di un’installazione realizzata al Palais De Tokyo, culla di arte contemporanea lungo la riva destra della Senna, a poca distanza da quel tristemente famoso tunnel de l’Alma dove Lady Diana aveva perso la vita solo due anni prima.
Il nome dell’opera era “Remake of the weekend”, per l’appunto una complessa installazione creata dall’artista svizzera Pipilotti Rist: i visitatori passavano attraverso una serie di stanze raffiguranti i locali di una grande casa, completamente arredati, ciascuno dei quali raccontava - per il tramite di oggetti, complementi di arredamento, materiale audio, video proiettati su piccoli televisori o su megaschermi e tutta una serie infinita di dettagli da cogliere e/o interpretare – gli avvenimenti che avevano caratterizzato il weekend della padrona di casa. Che era naturalmente assente in quel frangente, ma le cui vicissitudini si era invitati a ricostruire – ecco il “remake” – attraverso la ricomposizione logica e più o meno sequenziale dell’accaduto come suggerita dagli innumerevoli indizi sparsi per casa.
Il gioco era – come facilmente intuibile – davvero mind-blowing: Giacomo ed io restammo lì dentro (c’erano al Palais De Tokyo anche altre due mostre, entrambe interessantissime, alle quali ci dedicammo con passione) per ore ed ore, ripercorrendo a ritroso il tragitto, e poi di nuovo, cercando di scovare minuzie sfuggite ad un primo esame, lasciandoci guidare dal sacro fuoco della passione artistica ed uscendo - non ricordo nemmeno dopo quanto, ma in stato di sovreccitazione psichica – quando il personale ci indicò che era giunta l’ora di chiusura.
Fin qui i ricordi.
Poi c’è la molla che ha innescato una serie interminabile di processi mentali, di connessioni, di analogie. La molla è Genevieve Murphy, artista scozzese classe 1988. Avanguardia ed elettronica i suoi mezzi espressivi prediletti, ma c’è molto di più. Come “Remake of the weekend”, anche “I don’t want to be an individual all on my own” (appena uscito per Unsounds Records) traccia un percorso cospargendolo di briciole di Pollicino, giusto per ritrovare la strada.
Ma non verso casa: la meta è la ricostruzione di sé stessa, in un tempo limitato e circoscritto a mo’ di Leopold Bloom. Anzi, meglio: in un diorama da Truman Show, che contiene gli avvenimenti della festa del suo ottavo compleanno, va in onda la ricostruzione della consapevolezza dell’esistenza di un mondo adulto e delle relazioni che cambiano al trascorrere del tempo. Una specie di romanzo di formazione scandito dalle minuscole variazioni di una singola giornata.
E il tempo è tutto lì: in quel pomeriggio, in quella sera, in quella notte, in quelle tenebre.
Precisazione doverosa: questo è più di un disco, anzi fondamentalmente non lo è affatto.
Diciotto tracce – comprese due live e una bonus track - per cinquantacinque minuti zeppi di disturbi sonori da musique concrete, accenni di glitch, suggestioni che ricordano perfino le digressioni più cervellotiche degli Starfuckers. E’ un’opera che trascende la ristretta dimensione dell’album o della sequenza-di-canzoni: è più che altro un racconto che oscilla tra elettronica, spoken word, canzoni vere e proprie (poche, tutte pregevoli: “Your feeling”, “Like smoke”, “Living emotions”, “Before a decade”: da IDM a EDM), è un gigantesco hide-and-seek, una mascherata da “Eyes wide shut” dove le supposte certezze vengono meno o cambiano colori, sfumature, prospettive. Eppure – curioso! - è così coinvolgente: sebbene largamente e formalmente privo di musica as we know it, è dotato di una sua innata, nascosta musicalità. Quasi la sindrome dell’arto fantasma.
Lo scenario è minuziosamente ricreato nei particolari, soprattutto nella definizione dei personaggi che sembrano recitare – ma sono reali, o forse no, o non al cento per cento – in una piéce che rappresentazione non è.
Il pretesto (il canovaccio?): madre e figlia – Genevieve bimba – festeggiano il proprio compleanno lo stesso giorno. Mamma ne ha compiuti quarantadue tre giorni prima, Genevieve ne compie otto proprio oggi. Mamma organizza una festa per entrambe, invitando sia gli amichetti della figlia, sia i loro genitori. Mamma è in ansia per la riuscita della festa e per tutta l’architettura dell’evento. I bambini resteranno a dormire.
Le ansie della mamma inframezzate dalle ansie della bimba: organizzative e di temuta inadeguatezza le prime, popolate di mostri infantili (“Bushes of the unknown” e “Sitting in the shadow of the bushes”, con i cespugli elevati a luogo oscuro per eccellenza) le seconde, che nella loro fanciullesca semplicità fanno più paura di quelle degli adulti.
Anche osservare il nonno – la cui descrizione occupa tutta “Grandad Tj” - mentre nella sua stanza sta traducendo un testo di filosofia è qualcosa che agli occhi di una bimba di otto anni può essere rivestita di un alone di mistero da far accapponare la pelle: la recitazione è sottovoce (back in the days Tj was a catholic monk, until Evelyne, my grandmother, seduced him, è la chiusura), la narrazione è corredata da piccoli, piccolissimi, minuscoli rumori e interferenze mandati in loop e richiamati di continuo, nemmeno fossero ritornelli.
La descrizione della nonna (“Grandma Evelyne”, free jazz di sottofondo) avviene invece dal punto di vista della Genevieve già cresciuta, con corollario di un linguaggio profondo e intriso di notazioni finemente psicologiche (Evelyne teaches me how to feel and how to create an argument just to be able to watch it happen), che si trasformano nella voce stessa della nonna, la quale ricorda la dipartita – a cui assistette - della sorella Florence a soli quindici anni a causa dell’epidemia di tubercolosi del 1949 e spiega alla nipotina il perchè oltre a Genevieve, Clare e Georgina le sia stato dato anche il nome di Florence (I used to believe in God when I was your age but then I grew up and realized it’s all a load of rubbish, è la chiusura).
La descrizione fisica di nonna Evelyne la troviamo invece in “Roll the drunk”, preludio al suo mancamento – ubriaca – sul prato, alla fuga visionaria della piccola Genevieve dalla realtà ed alla scomparsa di nonna nei cespugli, mentre i bambini – o sono studenti di scuola superiore in un salto temporale? – intonano incessantemente in coro il loro spietato “roll-the-drunk, roll-the-drunk, roll-the-drunk”. E’ il momento centrale. E’ anche un trompe-l’-oeil?
La piccola rifiuta di aggregarsi agli amichetti nel giardino (mamma insiste nel suo stentoreo “in the garden! In the garden!”) per assistere alla performance di un’attrice ingaggiata per l’occasione, preferendo rifugiarsi in cameretta per sprofondare nel suo mondo di fantasia (immagina di trovarsi su una barca), in attesa di partecipare alla gara di ballo.
E’ sera, mamma sistema i materassi per il pigiama-party, Genevieve e gli altri bimbi si coricano nei sacchi a pelo, esausti e felici, ma un ragno si deposita dal suo filo proprio sul giaciglio di Genevieve. Un’amichetta corre nella stanza della mamma per chiedere aiuto. La bimba spinge la porta, colpendo mamma in faccia involontariamente. Pur con la mano sull’occhio ferito, mamma cattura il ragno e rimette i bimbi a nanna. Accarezza la testa della figlia e le canta (davvero? Chi lo sa...) l’incantevole lullaby bluesy à la Mary Gauthier di “For them to fear us”.
Il nostos è il sonno, o forse un tempo che non tornerà, o magari un tempo che non è mai realmente trascorso, oppure un tempo ancora di là da venire.
Ma non è finita.
E’ di nuovo giorno, i genitori vengono a riprendere i propri figli. Evelyne ha trascorso tutta la notte nei cespugli. Non è chiaro se sia viva o se sia accaduto il peggio. Ma nessuno parla. Le espressioni sui volti dei genitori sono di pietra. Tengono i bimbi per mano, mentre li allontanano e si allontanano un passo alla volta, trasalendo muti.
Potrei continuare ancora a lungo, ma ho già abusato a sufficienza sia della benevolenza del mio direttore, sia della pazienza dei miei consueti venticinque lettori, ai quali ben volentieri lascerò il piacere di completare il puzzle ricominciandolo da capo, riguardandolo da una diversa angolazione, rovistando con cura e rinnovata attenzione nei molti angoli ancora inesplorati della grande casa di Genevieve Murphy, il cui ottavo compleanno potrebbe non finire mai. (Manuel Maverna)