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LEHNEN  "Negative space"
   (2021 )

Diciamocelo: stiamo qui a disquisire della next-big-thing, della prossima grande scoperta, della strabiliante innovatività di Tizio o di quanto sia avanti Caio, ma tanto alla fine si torna sempre e comunque all’ovile, popolato - al limite del sovraffollamento - dalle svariate passioni nutrite e coltivate per una vita.

In musica, si continua ad amare ciò che si è già amato, e a quell’ovile torneremo, a prescindere dalla genialità di Sempronio, che magari neppure ci piace, ma che è così avanti che merita l’Osanna.

Joel Boyd (voce e chitarra), Matthew Prokop (batteria e synth) e Stefan Sieder (basso) sono i Lehnen, tre signori austriaci – prima erano in quattro, con il secondo chitarrista Martin Konvicka – con all’attivo altri tre album e due ep in quindici anni di vita. A sei anni da “Reaching over ice and waves”, pubblicano per Noise Appeal Records le dieci tracce di “Negative space”, lavoro al contempo maestoso e disturbante che ruota attorno ad un veemente intreccio di shoegaze, emo truccato, noise gentile.

Tra echi e vestigia di DIIV e Silversun Pickups, A Place To Bury Strangers e Nothing, Jimmy Eat World e Swervedriver, gli ingredienti sono quelli abituali: un gran frastuono a sommergere melodie che non vogliono soccombere del tutto alla distorsione, accordature aperte, canto distante per metà sofferente e per metà apatico. La peculiarità dei Lehnen sta nella personalità con cui interpretano il canone: a tratti suonano violentissimi - discreta anomalia nel milieu in cui pascolano – mentre altrove stravolgono l’andatura dei brani, creando una tensione stralunata come nell’attesa di un agguato. Concentrato sulle dinamiche, il trio gioca con ostinazione sulla ritmica, insistentemente fratturata in un caparbio rinvio del climax, quasi fosse un orgasmo rimandato a tempi migliori.

Le canzoni – tutte attorno ai quattro minuti, compatte e mai dispersive – sono trattenute ad arte, implodono anzichè deflagrare. Emblematico in tal senso l’ingorgo congesto di “Mute”, alla quale manca soltanto il crooning gutturale di Robert Smith per ricalcare alla perfezione l’incedere strabordante e psicotico di certe martellate dei Cure (da “Disintegration” a “One hundred years”, da “The figurehead” a “Open”): il fragore è fumo negli occhi, il rumore aumenta, ma il pezzo non esplode.

L’effetto complessivo è straniante, come restare con un urlo strozzato in gola.

“Lacuna” si crogiola in reiterati stop-and-go sui generis, simili ad acciaccature, inciampi, esitazioni; “You throw light” flirta coi Muse degli albori, prima di rallentare e di infilarsi in un angusto cunicolo electro; “Thirty-one” è una dilatazione inconclusa che si regge su un tappeto di acide distorsioni intermittenti; “Playact” è una granata inesplosa che attende il suo momento clou in un vortice di disturbi, sorretta da un drumming sì incalzante, ma mai rilasciato.

Quella plasmata in “Negative space” è una musica che collassa continuamente su sé stessa: la sua veemenza è ingannevole, è solo un trompe-l’oeil di facciata.

L’acme di questo processo invertito è rappresentato da “Elephant”, aperta da due minuti e mezzo strumentali traboccanti di synth che somigliano ad una outro; seguono l’ingresso del canto - spoglio e compassato - ed una nuova impennata, sottolineata da una partitura devastante della batteria a sovvertire il tutto. In coda, “Curtain” rallenta in un’oasi di pace stravolta (un po’ l’equivalente dei brani più pacati dei J&MC), salvo suicidarsi in un crescendo saturo all’inverosimile che sommerge la linea iniziale, mentre “Obscura” stende il suo mesto commiato su una ballad intensa e sovraccarica ad un centimetro dagli Smashing Pumpkins di “Machina”.

Quando si spegne l’ultima eco di elettricità nervosa e nell’ovile torna a regnare il silenzio, sembra quasi che nulla di nuovo sia successo negli ultimi quarantatré minuti. Che sono una coperta di Linus calda e morbida, una summa di vecchie passioni mai sopite, un calderone ribollente di suoni di cui siamo inzuppati fino al midollo.

E diciamocelo: pure nei meandri di un disco, in fondo vogliamo tutti fermare il tempo, fosse anche per soli quarantatré minuti. (Manuel Maverna)