DOG DIMENSION "Endless summer"
(2021 )
Non lasciano indifferenti le cinque tracce per ventidue minuti su label Bohemian Drips di questo ruvido “Endless summer”, terzo ep pubblicato dal trio berlinese Dog Dimension, nato nel 2019 e formato da Josefine Lukschy (voce e basso), Alexander Meurer (chitarra) e Immo Philipp Hofmann (batteria).
Ad andare in scena in una pièce nevrotica - a tratti stordente, sempre storta e disallineata nella sua indole così lucidamente off - sono brani che deflagrano in nubi di fosca elettricità disturbata, scossi da una ritmica incalzante, largamente imperniati sulle dinamiche, atout che domina la scena e rende l’insieme digeribile a dispetto della caliginosa atmosfera di fondo.
Sospinto dalla vocalità cangiante di Josefine, capace di plasmare ad arte trame agonizzanti e incattivite, “Endless summer” apre con una “Sticky people” nervosa e spinosa: pervertita - non mitigata - da una interpretazione lasciva, spinge inquieta su un registro che ricorda i Fugazi degli esordi, infilandosi in un marasma di distorsioni acide e dissonanze assortite fino all’epilogo, inghiottito da uno scatto psicotico.
La title-track che segue è una morbosa cantilena condotta al passo di un ingannevole punk-funk indocile e contorto, memore sì di Pop Group e Gang Of Four, ma straziata in un amen da repentine esplosioni che la trasfigurano da boutade danzereccia a pastiche noisy, con due minuti di un congesto ingorgo psicotico spento soltanto dal fade-out finale.
Il riff in controtempo che introduce e sostiene “Doggernaut” piacerebbe a Page Hamilton (siamo in piena area “Betty”), salvo forse per il coup de theatre conclusivo, col ritmo a caracollare su una cadenza tra suggestioni dub e funk bianco à la Police (sic!) prima di dissolversi in una cascata di rumori che fungono da preludio alla successiva “Scrunchy face”: tra stop-and-go singhiozzanti e violenti staccati di chitarra da RATM prende forma una hit sui generis, portata a spasso da figure frenetiche del basso e squassata di continuo da urla belluine, tra Coutney Love e Mish Barber-Way.
Nei primi sessanta secondi della conclusiva “Drop shadow by the pool” accade di tutto, nemmeno fosse un brano dei Black Country, New Road: a seguire, l’abituale diluvio di dissonanze condito dal crooning a dir poco espressionista di Josefine, invasata a torturare una linea melodica che fa capolino timida in uno straccio di chorus sbilenco e ubriaco, anticamera dell’ennesima devastazione.
Totalmente privo di sequenze strofa-ritornello-strofa, l’ep si contorce minaccioso menando fendenti alla cieca, rivoltando come un calzino la spoglia mortale del caro vecchio rock: tra l’ombra lunga di Steve Albini, echi di Primus e vestigia dei più attuali Ought, lontani sentori di post-hardcore à la Oxbow, macerie fumanti di un post-punk (più post che punk) à la Polvo, ciò che resta è un guazzabuglio assatanato e stravolto, musica ostica di matrice nineties, figlia sì di un qualche rigurgito tardo-grunge ma anche di derive math e molto altro.
Qualcosa di malsano si agita nell’ombra, un mostro in catene pronto ad attaccare. (Manuel Maverna)