ELISA MONTALDO "Fistful of planets part II"
(2021 )
Fosse anche soltanto perchè dichiara con esplicito candore di credere nel potere curativo della musica, Elisa Montaldo mi sarebbe già personalmente gradita, perchè in quel bel potere ascoso credo fermamente pure io.
Genovese di origine, raffinata ed aggraziata tout court, ingloba nella sua arte multistrato la stessa idea di bellezza che ne pervade la scrittura: il milieu è centrato e coerente, un connubio simbiotico di armonia e intelletto che procede per delicate aggiunte su un canovaccio la cui trama non è mai semplice da districare.
Attiva da oltre vent’anni, sia come membro del Tempio Delle Clessidre (progetto nato dalla collaborazione con Stefano Galifi – poi sostituito da Francesco Ciapica -, voce della prima incarnazione degli storici Museo Rosenbach, formazione iconica del progressive italiano di inizio anni Settanta) che in qualità di solista, Elisa Montaldo è una musicista e compositrice genovese che nasce pianista, divenendo col tempo una versatile multistrumentista; a conferma di una inesauribile verve, è inoltre concertista internazionale, collaboratrice di svariati act (dagli Ianva a Max Manfredi), perfino make-up artist.
“Fistful of planets – part II” segue di nemmeno un anno il delizioso “Dévoiler” – parentesi intimista lontana dalle abituali frequenze - e di ben sei il debutto di “Fistful of planets – part I” (interamente strumentale), del quale riprende il titolo ed approfondisce gli spunti di interesse rielaborandone le sonorità per il tramite di un rinnovato accento posto sulle liriche e sullo sviluppo dei brani.
Il passaggio da un approccio embrionale ed istintivo ad una opulenta compiutezza, foriera di pathos e ricca di intarsi, è indubbiamente predittivo di una maturazione continua, un’evoluzione che segue traiettorie imprevedibili sul filo dell’estro e della creatività, capace di legare in un unico contesto suggestioni neoclassiche, tentazioni di contemporanea, sottili digressioni jazzy (“Haiku (the orange planet)”, con pregevoli ricami della chitarra), o addirittura morbide incursioni in territori limitrofi ad un pop elegante (“We are magic (the fuchsia planet)”, non così distante nel ritornello da certe progressioni di accordi à la David Sylvian).
Elisa non nasconde le sue profonde radici prog, evidenti in tutta la loro complessa pienezza nei dodici vorticosi minuti di ”Feeling/Nothing/Into the black hole - the black hole”, suite ubriacante scossa come un sabba da momenti di incalzante frenesia, risolta in chiusura da cento secondi di rumori ambientali ad un passo dal nulla; ma altrove – in ciò risiede la peculiarità del disegno - elabora la materia coniando un linguaggio che è al contempo personale ed universale, collocandosi nell’orbita dei These New Puritans nella psichedelia sui generis di “Floating/Wasting life (the grey planet)” o crogiolandosi nel diafano languore di “Washing the clouds (the white planet)”, a metà strada tra Kate Bush e Joanna Newsom.
Tra accenni cameristici in veste lounge, echi di Debussy (“Wesak (satellite)”) ed aperture orchestrali maestose (“Earth’s call (exosphere)”) in una dolce babele che mischia inglese, francese e briciole di italiano con la più assoluta nonchalance, il commiato è lasciato alla desolazione retrò di “Valse des sirènes (grand finale) – satellite”, chanson d’antan che funge da suggello ad un lavoro così splendidamente indefinibile da non richiedere altro impegno se non quello di abbandonarvisi senza remore, lasciandosi trasportare come un guscio di noce alla deriva.
Quarantasei minuti che hanno i colori dei pianeti, della natura, dell’anima, del desiderio.
Puro fascino, essenza impalpabile, magia. (Manuel Maverna)