recensioni dischi
   torna all'elenco


DEKA'DENTSA  "Universo 25"
   (2021 )

In uno spicchio dell’abisso nascosto al piano di sotto abitano gli incubi a tinte fosche generati dalla visionaria impetuosità dei Deka'dɛntsa, quartetto originario del salernitano formato nel 2019 per iniziativa del bassista Lhello Marra, qui all’esordio su Zero Produzioni/22 Dicembre Records con le sette tracce di “Universo 25”, tesissimo compendio di sludge caliginoso e tetre atmosfere psych.

Quello dipinto nero-su-nero è un bestiario di varia umanità, quasi un concept sci-fi di futurismo pessimista, ispirato fin dal titolo agli esperimenti dell’etologo John B. Calhoun sulla corruzione delle strutture sociali al variare delle condizioni dell’ambiente circostante; concepito e scritto durante la pandemia, risente fortemente della situazione nella quale è nato, inquietudine concentrata in testi oscuri dal taglio apocalittico, resi ancor più vividi e penetranti da un uso credibile e centrato dell’italiano (oramai non più così insolito anche a cavallo di cotanta ferocia).

Cupo e disturbante, fragoroso e compatto, erige una muraglia sonora nel quale scenari catastrofici si materializzano in spire soffocanti; compresso tra funerei presagi e sinistra incombenza, il suono è granitico, ma mitigato dalla inattesa inflessione melodiosa nel canto di Emilio Prinzo, a tratti contraltare ad una musica asfittica ed opprimente, condensata in brani lunghi ed asfissianti.

Tra echi dei primi Timoria nella title-track, accelerazioni assassine e minacciose à la Karma To Burn (“Inutili eroi”), pesanti digressioni in territori stoner (“Decadenza”, tra i Kyuss di “Blues for the red sun”, i più bui Soundgarden di “Superunknown”, i Motorpsycho di “Demon box”) ed incursioni in anfratti tenebrosi memori della percussività ossessiva dei Cure di “Pornography” (“Hikikomori”), l’album si incunea in un gorgo dal quale non intende uscire, un buio omega che inghiotte redenzione e speranza.

Le due tracce conclusive confezionano un quarto d’ora di stordente intensità, trattenuta e rilasciata di continuo ad un passo dalla voragine, una doppia bordata monolitica, martellante e tormentata, pressochè priva di aperture o spiragli di luce (fa eccezione la frase di chitarra in “Pandemica”, a tratti memore delle più colte divagazioni dei Marlene Kuntz periodo “Il vile”), un’accoppiata plumbea che cala il sipario su un’altra notte interminabile, il solo possibile suggello a trentanove minuti di rara intensità, grevi e dolenti, densi come lava. (Manuel Maverna)