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PETER HAMMILL  "In translation"
   (2021 )

Recensire un nuovo album di Peter Hammill rappresenta sempre una sfida nonché un grande impegno per i ripetuti e scrupolosi ascolti che la materia richiede, date le intricate trame sonore che da sempre caratterizzano i lavori dell’artista londinese. Un bell’impegno pure per chi scrive che, pur considerando Peter Hammill uno dei più eccelsi, geniali e originali musicisti almeno dal secondo dopoguerra ad oggi, ogni volta resta “spiazzato” dalla creatività fuori da ogni schema con la quale egli riesce a tramutare in musica le più profonde e ataviche pulsioni dell’essere umano.

Certamente nella sua lunghissima carriera ha avuto pure lui qualche caduta di tono, come del resto capita ad ogni musicista, ma il livello delle sue innumerevoli opere si colloca - se non sempre tra l’eccellenza e il capolavoro - almeno su posizioni di un indubbio valore espressivo/compositivo/esecutivo contraddistinte tra l’altro da certosine qualità quali l’onestà, la dignità e la genialità artistiche. Ciò premesso, che dire di questo “In Traslation”?

Confesso che la mia curiosità nell’attesa di poter finalmente ascoltare questa raccolta cresceva in maniera esponenziale man mano che si avvicinava il momento della sua immissione in questo asfittico e collassato mercato musicale. Curiosità peraltro ben motivata dato che trattasi del primo album di cover nella ultra decennale carriera di questo poliedrico cantante/poeta/polistrumentista/compositore di britannica provenienza.

Dopo un primo assaggio persino un irriducibile fan come me abituato alle scorribande vocali, compositive e strumentali di Hammill è rimasto un tantino perplesso, però vorrei onestamente dire né più né meno di quanto non si possa restare di fronte alla maggior parte delle sue ultime opere. Hammill ci ha abituati ormai da più di vent’anni (salvo qualche eccezione) ad un approccio alla sua materia musicale molto intimo e confidenziale che, in questo lavoro in particolare, fa da tappeto sonoro ad una vocalità più da crooner molto ma molto particolare, raffinato, unico, irripetuto ed irripetibile che non semmai a quella del cantante della disperazione, di quella solitudine cosmica urlata, sofferta e portata agli estremi delle possibilità dell’ugola tipica di tempi più remoti.

Su queste coordinate si muovono tutte le cover dell’album dove l’artista mostra una sensibilità ed un estro interpretativo che travalicano i limiti dell’eccellenza. La sua voce, alla importante età di ben 73 anni, continua ad essere una delle migliori (se non la migliore) a tutt’oggi in circolazione, se non altro per l’innata capacità di trasmettere quelle emozioni, quel pathos, quella drammaticità che solo pochi sono capaci di padroneggiare con tanta maestria e personalità. Le canzoni di “In Traslation” non sfuggono al magico e geniale trattamento Hammilliano, e in virtù di ciò acquistano una originalità e direi una modernità che va al di là delle più rosee aspettative. Certamente non si tratta di arrangiamenti e processi melodici di facile assimilazione, del resto chi cerca qui la banale riproposizione di canzoni più o meno famose reinterpretate con faciloneria e contraddistinte da quelle tipiche strizzatine d’occhio all’orecchiabilità e al gradimento del mercato di massa, beh, non troverà di certo materiale di cui cibarsi per banalizzarsi ulteriormente nell’anima.

Nell’omogenea continuità dovuta in gran parte ad arrangiamenti bellissimi, struggenti e talvolta geniali, le dieci canzoni qui presenti si agitano con sinuoso movimento lento e seducente nel mare calmo di una notte illuminata da poche stelle, ma capaci esse di ricoprirci di una luminosità avvolgente e penetrante. I suoni, le parole, le mille voci di Hammill toccano lo spirito, arrivano al cuore, nutrono il sentimento, non prima però di essere decodificate transitando attraverso quella parte così importante ed essenziale per tutti noi - oggi spesso ridotta a un mero opzional - dove dimorano la coscienza e l’intelletto.

Ogni canzone è un’autentica meraviglia, un prezioso scrigno di emozioni, un caleidoscopio di suoni prodotti dagli strumenti, tutti quanti suonati da Hammill, quindi mi resta difficile esprimere preferenze. Tuttavia non posso esimermi dal segnalare almeno quattro brani dove regnano una stupefacente destrezza esecutiva ed una sensibilità artistica fuori dall’ordinario: essi sono la cover di ''Hotel Supramonte'' di Fabrizio De Andrè, la celeberrima ''Ciao Amore Ciao'' di Luigi Tenco, ''I Who Have Nothing'' tra i cui compositori figura Mogol, e infine il capolavoro che chiude in bellezza questa raccolta di infinita raffinatezza sonora, ''Lost To The World'' di Gustav Malher, tra l’altro compositore classico che adoro. Per onor di cronaca da segnalare pure ''Il Vino'' del livornese Piero Ciampi della quale Hammill offre una versione incantevole e travolgente.

In conclusione che giudizio dare a questo ''In Traslation''? Per chi scrive siamo al cospetto di un capolavoro di assoluta e rara bellezza, certamente di difficile assimilazione come ci ha abituati Hammill da sempre, non basta infatti un ascolto, né due o tre o quattro o cinque… ma una volta riusciti a penetrare all’interno delle struggenti e poetiche dinamiche della sua musica, delle sue composizioni, delle sue interpretazioni è come scoprire finalmente la luce dell’anima dopo decenni di buio.

A tergo del nutrito booklet Hammill scrive: “And yes, lastly: I’m well aware of the enormously privileged position in which I’ve found myself, being able to work on this material while all the normal things of life disappeared around us”. Da ultimo un doveroso cenno alla copertina dove appare un signore, Peter Hammill, in tuta ginnica azzurra con scritto a grandi caratteri “Italia”; un chiaro omaggio ad una terra che l’ha sempre amato e che lui ha sempre amato. (Moreno Lenzi)