recensioni dischi
   torna all'elenco


MARCO BROSOLO  "Col morbo rosa"
   (2021 )

Quando la sensibilità diventa invalidante, la si può vedere come una patologia: così si spiega il titolo che ha scelto Marco Brosolo per la sua ultima uscita “Col morbo rosa”. Poeta e batterista italiano che vive a Berlino, Brosolo unisce in una personale visione batteria e pianoforte, con qualche aggiunta di arpeggiatori elettronici, per ottenere una particolare atmosfera introspettiva, e dal sound che prende sia dal jazz che dalla classica “alternativa” tedesca. Già dal primo pezzo “Il senso di polpa”, possiamo apprezzare l’abilità nell’intessere giochi di parole, ma con tono serio e leggermente amaro: “Volente o nolente, volante di me (…) le piogge mi portano via tutti gli amici, che avevo trovato in mezzo alle nubi (…) devo dire di non morire per non morire”. Ma le parole vengono pronunciate rapidamente, è difficile rincorrerle.

L’anafora “non so” caratterizza il testo in tedesco di “Ich weiβ nicht”: “Ich weiβ nicht warum, ich weiβ nicht wie (…) Ich weiβ nicht ob es gut aussieht, ich weiβ ob es weit, ob es genug ist. Ich weiβ nicht wann das Ende kommt“ (non so perché, non so come, non so se è buono, lontano o abbastanza... non so quando viene la fine). Le parole teutoniche sono sostenute da batteria, synth e una malinconica chitarra. In “Classica”, il pianoforte sale e scende le scale, mentre un piano toy impreziosisce il clima, sopra impulsi ritmici meccanici. Ma in “Gambi tronchi” torna la bravura lessicale, che va a braccetto con un pensiero acuto: “Gli alberi agli albori erano i rami dei prati, ma poi i fiori comprati hanno reso gonfi i bronchi diventando tronchi. I petali se ne sono per sempre andati insieme ai gambi tronchi, e noi ci siamo scordati quanti fiori c'erano fuori nei prati”.

E anche “Nelle macchie”, è sottile il collegamento tra il calembour e il contenuto: “Nelle macchie delle braghe trovo vaghe vecchie cose (…) Quanta paglia al fuoco che mettiamo senza carne da bruciare, senza sole quando piove, senza sale (…) Fammi da spallina che mi copro per il freddo che si aggira tra le idee che mi ronzano”. E infine, le note gravissime di un pianoforte, assieme al suono secco della batteria, avviano “Io”, svelando il gioco dell’arte (di ogni forma d’arte), che rischia di far apparire l’artista di più della persona che è. “Noi siamo quelli che fanno luce, e poi ad un tratto si vede che l'ombra è più grande di me; ho solo messo le lampade dal punto in cui tutti voi vedete un uomo grande, ma io sono quello lì, lo stesso di prima”. La sensibilità condivisa comprende anche il senso di umiltà, volendo solo condividere le impressioni, rinunciando al protagonismo da personaggio. (Gilberto Ongaro)